discussa dalla candidata Cristiana Andolfi presso la Seconda Università degli Studi di Napoli,
Corso di Laurea in Conservazione dei Beni Culturali.
Introduzione........................................................................ p. 1
Capitolo I : I Borbone nella Napoli del ‘700......................... p. 5
Capitolo II: Abbigliamento delle classi del Regno
2.1 Costumi popolari ......................................................... p. 29
2.2 Uniformi militari............................................................ p. 74
2.3 Abiti di corte................................................................. p. 100
Capitolo III: Profilo socio – antropologico della società del tempo
attraverso l’analisi dei costumi........................................... p. 125
Capitolo IV: Le stoffe ed i modelli..................................... p. 149
Bibliografia........................................................................ p. 163
Contenuto del Capitolo I : breve profilo dei due sovrani Carlo III e Ferdinando IV, appartenenti alla dinastia borbonica, che, proprio nel momento in cui il Regno di Napoli raggiungeva una sua autonomia emancipandosi dall’orbita spagnola, hanno dato impulso alle attività artistiche nei vari territori regnicoli e hanno conferito a Napoli la dignità di grande Capitale europea del ‘700.
Contenuto del Capitolo II : descrizione dell’abbigliamento delle classi del Regno di Napoli: costumi popolari, costumi realizzati per le statuine del celebre Presepe napoletano, costumi indossati, sia dal popolo che dall’aristocrazia, in occasione di festività e ricorrenze, abiti di corte e uniformi militari dell’Esercito del Regno di Napoli dal 1734 al 1799; ciascuno dei tre paragrafi, in cui è suddiviso il Capitolo II, è corredato di immagini di riferimento.
Contenuto del Capitolo III : il costume, l’abito e l’uniforme di una particolare area geografica in un determinato periodo storico, in questo caso il Regno di Napoli nel XVIII secolo, considerati un importante documento etnografico, il cui studio fornisce essenziali indizi sul tenore di vita, sui molteplici influssi culturali, sul carattere e sulle usanze della società napoletana di quel secolo.
Contenuto del Capitolo IV : panoramica delle stoffe e dei modelli indossati dai vari abitanti delle diverse classi sociali del Regno di Napoli nel ‘700.
Introduzione
La storia di una società non si scrive soltanto raccontando le sue vicende politiche, ma anche non dimenticando di analizzare tutto quello che fa parte del suo vivere quotidiano, compresi gli abiti, i costumi e le uniformi dei vari ceti sociali che la compongono.
Questo mio lavoro ha appunto il compito di mettere in luce gli aspetti caratterizzanti la società napoletana del Settecento, puntando l’attenzione sull’abbigliamento, settore che troppo spesso passa inosservato nella storia di un popolo.
I costumi possono considerarsi veri e propri “documenti” di un popolo, infatti studiandoli si risale alla condizione economica e sociale di un determinato territorio in una determinata epoca, al tenore di vita dei suoi abitanti e persino a come fossero organizzate le attività artigianali, artistiche ed, eventualmente, industriali di quel luogo, poiché per realizzare i capi d’abbigliamento si passa dal reperimento delle materie prime alla loro lavorazione, fino a giungere alla realizzazione dei modelli e, in tale processo, vengono coinvolti luoghi, persone e capitali finanziari.
Poiché del Settecento non abbiamo, ovviamente, documenti fotografici, il mio punto di riferimento sono stati dipinti, acquerelli, disegni, incisioni, immagini riprodotte sui servizi di Porcellana di Capodimonte, testimonianze scritte coeve all’epoca presa in esame, saggi, articoli, cataloghi di mostre e libri, anche se, riferendoci a questi ultimi, non vi sono volumi che trattino dell’abbigliamento del Settecento nel Regno di Napoli.
Non è stato facile quindi portare avanti questa tesi sperimentale, essendo la documentazione frammentaria, sparsa in Biblioteche Nazionali, Universitarie, Archivi di Stato e Archivi Militari, Musei e Associazioni Culturali del territorio campano, ma soprattutto di Napoli.
Ribadisco che purtroppo nessuno studioso si è, fino ad ora, occupato in modo unitario ed esaustivo dell’abbigliamento delle classi del Regno di Napoli nel Settecento, nel mondo accademico ci si è concentrati su altro, preferendo magari realizzare degli studi completi sulle ceramiche, sui tessuti per confezionare paramenti religiosi, sui generi pittorici affermatisi in quell’epoca, sull’arte presepiale, sugli usi e sulle tradizioni del tempo, ma manca una visione d’insieme degli abiti delle classi sociali, mentre, nel corso di questo lavoro, mi sono convinta sempre più del fatto che molti frutti avrebbero potuto dare degli studi etnografici, specifici ed approfonditi, condotti sul costume popolare, sull’abbigliamento dei nobili e sulle uniformi militari del Regno di Napoli.
Esponendo questi argomenti, ho cercato il più possibile di seguire uno schema ordinato, poiché la Storia Moderna, nello specifico le vicende che hanno come protagonisti Carlo III e Ferdinando IV di Borbone, è stata la spina dorsale della mia ricerca, ma il fulcro di questo lavoro sono stati i paragrafi centrali. In essi descrivo l’abbigliamento delle classi del Regno, per il quale ho dovuto documentarmi dettagliatamente, essendo il Mezzogiorno un territorio vasto ed essendo il vestiario delle sue popolazioni legato alle più svariate combinazioni, soprattutto durante festività e ricorrenze.
Non dimentichiamo inoltre che solo nel XVIII secolo il Regno di Napoli ha raggiunto una sua compattezza ed autonomia, necessitando di un ’ organizzazione politica, economica e sociale. Tutti questi mutamenti si riflettevano sul vivere quotidiano rendendo lo studio di questi territori del Sud Italia più stimolante rispetto a quello delle grandi monarchie europee che erano sì potenti, socialmente avanzate e con secoli di storia unitaria alle spalle, ma essendo ormai realtà consolidate, ben poche novità avrebbero riservato a chi, nel XVIII secolo e oltre, si fosse apprestato a studiarne la loro evoluzione, mentre i territori del Regno di Napoli andavano a costituire una realtà nuova, un terreno fertile per le indagini degli studiosi.
Capitolo I
I Borbone nella Napoli del Settecento
<< E’ vero, qui non si può fare qualche passo senza che ci si imbatta in individui mal vestiti, o vestiti persino solo di stracci, ma non per questo loro sono perdigiorno o fannulloni! Anzi, paradossalmente oserei dire che a Napoli il lavoro maggiore viene svolto dalle persone dei ceti bassi [...] il cosiddetto “lazzarone” non è meno attivo di chi appartiene a una classe agiata, e tuttavia bisogna prendere nota che qui tutti lavorano non solo per vivere, ma anche per godersi la vita; pure nella fatica vogliono essere felici >>1. Questo scrisse Goethe nel suo “Viaggio in Italia”, definendo Napoli “un paradiso abitato da diavoli”. Proprio qui, nella città prima greca, romana e medievale dei decumani, poi spagnola ed infine neoclassica, che aveva ospitato per pochi anni il vicereame austriaco, proprio qui giunse Don Carlos, figlio del Re di Spagna Filippo V e di Elisabetta Farnese. Con l’ingresso di questo sovrano Napoli cessa di essere parte di quello che lo storico José Maravall aveva definito “sistema imperiale spagnolo” e acquista la sua autonomia. La condizione del Mezzogiorno di Vicereame ha nel tempo creato dibattiti accesi fra gli studiosi, alcuni sostengono che il rapporto del territorio napoletano con la Corona sia stato sì di subordinazione ad essa, ma anche di autosufficienza giuridica e politico-istituzionale e che Napoli, essendo il territorio a cui la Spagna teneva di più per la sua importante posizione geografica al centro del Mediterraneo, poteva considerarsi già una capitale; altri storici credono invece che i vari viceré che si avvicendarono si siano limitati a spremere il più possibile le finanze del Mezzogiorno d’Italia facendo di Napoli e dei territori limitrofi un serbatoio a cui attingere per rifocillare la Spagna. Sarà dal 1734 in poi che cambieranno molte cose, ma prima facciamo un passo indietro. Con i trattati di Utrecht e Rastadt (1713 – 1714), che siglarono la pace fra i vari contendenti europei, l’Austria era riuscita ad ottenere i territori italiani. Carlo III, con la promessa che appena maggiorenne avrebbe ottenuto il trono del Regno di Napoli, fu nominato da suo padre Filippo V capo delle forze spagnole in Italia e si avviò alla conquista del Sud, dove si insediò come Re di un nuovo Regno, il Regno delle Due Sicilie. Lo accompagnava quel Bernardo Tanucci che sarebbe stato nominato Ministro di Giustizia e, anni dopo, reggente per il figlio minore Ferdinando. Carlo III è stato considerato da alcuni “l’uomo della provvidenza”, il sovrano illuminato, mentre è stato denigrato dalla critica antiborbonica. Mettendo da parte questi giudizi, diremo che fu l ‘ uomo, appartenente ad una delle più importanti dinastie europee, che si ritrovò, in quel determinato momento storico, a gestire un territorio particolare per la sua eterogeneità e piuttosto complesso.
Napoli era allora una città in cui la Magistratura era una sorta di “Stato nello Stato”, composta da una gran parte di uomini di legge corrotti, in cui i baroni non avevano limiti nell’agire, sobillando la povera gente contro gli stessi sovrani, e in cui c’era miseria e malcontento fra la popolazione.
Il nuovo re sembrò guadagnarsi da subito l’affetto del popolo, elargendo una serie di donativi e perlustrando personalmente le province del Regno; grazie alla sua ascesa al trono, si verificò inoltre il passaggio di numerosi tesori da Parma a Napoli poiché, tra le rinunce al ducato di Parma e Piacenza in favore dell’Austria, Carlo III era almeno riuscito ad aggiudicarsi la collezione farnesiana di dipinti, statue, monete e disegni.
Dal 1739 in poi, con il susseguirsi della scoperta di Ercolano , dell’acquisto da parte del Re di un terreno a Portici, della creazione dell’Accademia Ercolanese, del restauro del Palazzo Reale, dell’edificazione del Teatro San Carlo, dell’istituzione della Real Fabbrica di Capodimonte e dell’avvio dei lavori per la realizzazione della Reggia di Caserta, Napoli e i territori limitrofi divennero degni di gareggiare con le altri capitali europee.
Carlo III non poteva ignorare i problemi sociali che affliggevano la plebe urbana e tra le prime cose che fece vi fu la costruzione dell ‘ Albergo dei Poveri per arginare l’affollamento dei rioni della Capitale da parte dei mendicanti; su consiglio di Padre Rocco, una specie di “missionario cittadino”, il Re acconsentì che fossero meglio illuminate le strade di Napoli, per mezzo di lampade poste davanti ai tabernacoli, che fossero concessi più svaghi al popolino e che, in generale, venissero messe in pratica le nuove teorie che teorizzavano pensatori del calibro di Voltaire, Diderot, Montesquieu e Genovesi. Fu quest’ultimo ad affermare che << la ragione non è utile se non quando è diventata pratica e realtà; né ella divien tale se non quando tutta si è diffusa nel costume e nelle arti, che noi l’adoperiamo come nostra sovrana regola, quasi senza accorgercene >>2 e, riferendosi alla formazione del Regno di Napoli, lodò nel 1754 le iniziative politiche del sovrano << [...] cominciamo anche noi ad avere una Patria e ad intendere quanto vantaggio sia, per tutta una nazione, avere un proprio principe. Interessiamoci all’onore della nazione! I forestieri conoscono, e il dicono chiaro, quanto potremmo noi fare, se avessimo migliori teste. Il nostro augusto sovrano fa quanto può per destarci. Egli concluse con la Porta ottomana, l’anno 1740, un trattato di pace e di navigazione in nostro pro; egli ne ha concluso un altro ultimamente cogli olandesi; ora si tratta per un altro cogli inglesi; va aumentando la marina per reprimere l’audacia degli africani; ha contribuito all’istituzione di una cattedra di commercio. Che vogliamo di più? Io so che si vuole, ma se noi non ci svegliamo, noi non l’otterremo mai >>3.
Nonostante la buona volontà del sovrano, il Regno di Napoli rimaneva comunque impantanato in tasse, dazi, privative che impedivano all’economia di decollare poiché le merci non circolavano liberamente e, anche anni dopo che Carlo ebbe lasciato la città per recarsi in Spagna, rimasero cronici i problemi di approvvigionamento, aggravati dalla carestia del 1764 e sfociati in ondate di proteste che, in quegli anni, venivano inviate a Napoli da parte di varie popolazioni del Regno4.
Nei primi sette anni del regno di Carlo, fase entusiasticamente definita dal marchese Tanucci “gli anni eroici della dinastia”, grazie alla restaurazione dell’autonomia nazionale e ad un certo rilancio economico, la circolazione della valuta aumentò, i Banchi pubblici registrarono un incremento del 5% fra il 1734 e il 1741.
Ma quando, tra il 1741 e il 1742, Carlo dovette impegnare il suo esercito per aiutare gli spagnoli che fronteggiavano gli austriaci in Italia settentrionale, nel 1743 dovette provvedere al trasferimento della Regina a Gaeta e infine in quegli stessi anni ci fu la peste di Messina e in più si era diffusa la voce che la dinastia borbonica stesse per crollare, allora si registrò una diminuzione della circolazione del denaro e anche i depositi si ridussero.
Cessata la guerra, il governo di Carlo cercò di riprendere la politica delle riforme. Tra il 1734 e il 1759 il denaro dei Banchi pubblici fu speso per sanare il debito pubblico, per immobili, mutui, prestiti, e soprattutto per i debiti che la Regia Corte aveva accumulato a causa delle spese per la Casa Reale, per l’esercito, per la diplomazia e per la segreteria di stato. Anche in campo militare crebbero le spese, fu creato dal niente un esercito, con propri corpi e proprie uniformi, delle quali parleremo nel capitolo successivo, fu creata una flotta e furono consolidati i preesistenti presidi di terra e di mare. Carlo però intuì che sarebbe stato inutile sforzarsi di creare una flotta imbattibile perché non avrebbe mai potuto competere con quelle, già esistenti, delle grandi monarchie europee, così si limitò ad attrezzare una flottiglia leggera e veloce che almeno fosse stata in grado di fronteggiare i pirati barbareschi. Il 20 gennaio 1752 Carlo III pose la prima pietra per la costruzione della Reggia di Caserta, chiedendo al Vanvitelli di non badare a spese e di crearvi stanze estive ed invernali, grandi saloni per pubbliche cerimonie, belvederi, gallerie, una biblioteca, un tribunale con relativi uffici, una chiesa, un seminario, un teatro con camerini per gli attori, un osservatorio astronomico, una segreteria reale, e centotrentasei camere in aggiunta a quelle già previste per gli addetti alla Corte. Il Re, in seguito, avrebbe desiderato che Carlo Goldoni si trasferisse a Napoli per diventare direttore del teatrino di Corte, progetto che sfumò per la partenza del sovrano.
Nel 1759 Carlo dovette lasciare il Regno di Napoli per andare ad occupare il trono di Spagna, ma suo figlio Ferdinando era troppo piccolo, così fu un consiglio di otto reggenti ad occuparsi della sua educazione finché non avesse raggiunto la maggiore età per regnare. Il più autorevole di questi reggenti fu il toscano Bernardo Tanucci. Su questo personaggio la storiografia si è divisa, alcuni hanno scritto che fece il possibile per governare nel modo più giusto, altri lo hanno accusato di manovre poco chiare. In alcuni scritti di Sir William Hamilton gli studiosi hanno letto fra le righe molti riferimenti del nobiluomo inglese all’indisciplinatezza del piccolo Ferdinando che, secondo lui, sarebbe stata assecondata dal Tanucci per essere libero di occuparsi di politica. Alcuni storici hanno poi affermato che l’accusa che Ferdinando indirizzò al Tanucci, cioè che fosse quest’ultimo il responsabile della rovina del paese, fosse stata suggerita dalla Regina stessa che a sua volta aveva mire espansionistiche. Inoltre, il fatto che Tanucci ben poco fosse riuscito a fare per affrontare la carestia del 1764, flagello a cui accennavamo ad inizio capitolo e che si disse avesse costretto i fornai a mescolare polvere di marmo alla farina, contribuì a screditarne la figura.
Dal libro di Giuseppe Campolieti, “Il Re Lazzarone”, apprendiamo invece che la sola figura che potesse influire negativamente sul carattere del piccolo Ferdinando era il Principe di San Nicandro, nominato suo tutore ed indicato nelle “Memorie” scritte da Giuseppe Gorani nel 1793 come << lo spirito più impuro che mai fosse nato sotto il cielo di Napoli >>5.
Quando ancora la Famiglia Reale non immaginava che, per i suoi problemi psichici, il primogenito di Carlo, Filippo Pasquale, non sarebbe mai salito al trono di Napoli, né il secondogenito, Carlo Antonio, perché destinato al trono di Spagna e non sospettava neanche lontanamente che alla fine il prescelto sarebbe stato Ferdinando, augurava a quest’ultimo una brillante carriera ecclesiastica affinché egli diventasse un futuro vescovo, un successore dello stesso cardinale arcivescovo di Napoli o addirittura un futuro Papa, poiché l’ava di famiglia, Elisabetta Farnese, aveva avuto tra i suoi antenati Paolo III.
Ma il piccolo Ferdinando, che assolutamente non immaginava che sarebbe diventato Re, mostrava una naturale inclinazione per i mestieri manuali: << sarebbe stato molto più a suo agio nel ruolo di mulattiere e di pescatore, di allevatore di mucche e di mandriano [...] Ferdinando, appunto perché manca dei requisiti tipici dei monarchi assoluti del tempo, proprio per quei modi popolari e volgari, si distacca dalla “razza” dei colleghi uomini-dio che conducono il mondo, le potenze del Vecchio Continente. Quali le conseguenze? Notevoli sulla dinamica delle classi, le quali proprio nel corso del “Gran Secolo” entreranno traumaticamente in conflitto >>6.
Il giorno in cui Carlo III, non potendo più rimandare gli impegni a Madrid, decise di abdicare ufficialmente in favore di Ferdinando, Tanucci era lì accanto a lui a leggere l’importante documento che il sovrano aveva appena sottoscritto, mentre la regina si asciugava le lacrime di commozione. Il Gran Ciambellano fu incaricato di salire i tre gradini che conducevano al Trono e di porgere a Ferdinando, su un cuscino vellutato, una spada preziosa, quella che Luigi XIV aveva donato al duca d’Anjou, futuro Filippo V, che simboleggiava il potere. L’autore Campolieti ci riferisce che Tanucci << gliela lasciò appena toccare, quindi diede ordine che fosse nuovamente riposta negli stipi del tesoro >>7 gesto che ci fa capire quanto il potente marchese volesse rimarcare il suo ruolo di reggente, esercitato dal 1760 al 1767.
Ferdinando era rimasto solo nella grande Reggia, i suoi genitori, suo fratello maggiore Carlo Antonio, le principessine e gran parte delle dame di compagnia, dei paggi e degli scudieri si erano trasferiti lontano, a Madrid. Le giornate a Palazzo dell’erede al trono erano scandite da precisi orari, dalle sette della mattina, quando Ferdinando veniva svegliato, si vestiva e recitava le preghiere, al pranzo del mezzogiorno, alle lezioni pomeridiane di lettura e aritmetica delle quattro, fino a quando, due ore prima del tramonto, arrivava il momento di uscire con la carrozza per andare a pescare, abitudine che manteneva in tutte le stagioni. Si è sempre detto che il principino avesse un cuore generoso e che fosse molto affettuoso nei confronti del suo sfortunato fratello maggiore, Filippo Pasquale, affetto da gravi problemi psichici e felice almeno in quei momenti in cui, nei suoi appartamenti, riceveva le visite del fratellino Ferdinando.
Gli anni trascorrevano in fretta e giunse il giorno dell’investitura. Il 12 gennaio 1767 Ferdinando di Borbone, compiuti i sedici anni, divenne re con pieni poteri. Sua promessa sposa era l’Arciduchessa austriaca Maria Giuseppa, ma mentre si organizzava la sontuosa cerimonia e si spedivano gli inviti a nozze, alla fine di giugno di quello stesso anno la giovane arciduchessa si ammalò. Si temeva fosse vaiolo, ma la febbre, dovuta ad un ’ infiammazione alla gola, si risolse in pochi giorni. I preparativi continuarono nei mesi successivi, finché alcuni giorni prima della partenza per Napoli, fissata il 16 ottobre, Maria Giuseppa contrasse il vaiolo che la condusse alla morte, a soli sedici anni, il 15 ottobre 1767.
Ferdinando sposò allora la sorella della defunta arciduchessa, Maria Carolina, che a detta di molti era una donna colta e adeguatamente preparata al futuro ruolo di regina. Alcuni resoconti dell’epoca la definiscono spietata, ambiziosa e perciò impaziente, fin dai primi giorni di matrimonio, di godere del suo diritto di entrare a far parte del Consiglio di Stato per occuparsi della politica del Regno di Napoli.
Per Maria Carolina la presenza del Tanucci era fastidiosa, lo considerava un uomo invadente, sempre pronto a ribattere ogni provvedimento preso da Ferdinando e, verso la metà degli anni ’70, i loro contrasti divennero insanabili.
Tanucci, che aveva sempre incoraggiato Ferdinando a rispettare l’etichetta spagnola e quella religiosità ufficiale così tenacemente sostenuta da Madrid, distogliendolo dalle insistenze della regina asburgica che lo incoraggiava a far parte di una specie di massoneria affermatasi con successo presso la corte austriaca, fu “eliminato” da Maria Carolina, ma pare che Ferdinando avesse tentato di difenderlo rendendosi conto che quel licenziamento appariva fulmineo e, apparentemente, immotivato. All’uscita di scena del marchese toscano, i cui dipartimenti furono consegnati al Marchese della Sambuca, stava per seguire, nell ’ agosto 1778, l’ingresso a Corte di un nuovo personaggio, destinato a riorganizzare con decisione e rapidità esercito e marina, contribuendo a distaccarli definitivamente dai sistemi spagnoli: l’ufficiale inglese John Acton.
Aprendo una piccola parentesi, diciamo che molti furono i toscani che, per vari motivi, furono presenti a Napoli in quegli anni, Tanucci, Giuseppe Breschi e Giuseppe Bracci, incisori, il medico Gatti, colui che sperimentò la vaccinazione antivaiolo, e lo stesso Acton, passato dalla marina lorenese a quella borbonica, ne sono un esempio. A tal proposito si dice che una volta Ferdinando avesse fatto notare al cognato Pietro Leopoldo come il gran numero di toscani a Napoli dimostrasse che forse si stava meglio nel suo regno che in Toscana.
Su Ferdinando si sono sempre tramandati vari aneddoti, alcuni riguardanti la sua passione per la caccia e la pesca. Il Re divenne celebre tra la gente del popolo perché, come un napoletano qualsiasi, era legato a rituali scaramantici e, andando a caccia, metteva in bella mostra all’occhiello della giacca una zampa di airone. Pare inoltre che egli temesse seriamente d ‘ imbattersi in alcune figure che nella cultura napoletana si credeva fossero di cattivo augurio, come le vecchie, i preti e il “Munaciello”, una specie di folletto che infestava le dimore.
Alcuni studiosi hanno osservato che mentre Carlo III, giudicato più colto e sensibile, pur essendo appassionato di caccia, preferiva dedicarsi ad attività intellettuali, come visitare gli scavi di Ercolano, Ferdinando IV si muoveva invece meglio durante le battute di caccia e nei luoghi frequentati dalla gente comune, la plebe urbana e rurale, spinto da molta più curiosità del suo predecessore nei confronti degli usi e costumi del suo popolo.
Lo studioso siciliano Pitrè agli inizi del Novecento scrisse un volume, “Studi di leggende popolari in Sicilia”, che raccoglie parte di quella tradizione orale che tramandava aneddoti su Ferdinando IV e ci racconta che il sovrano, qui fin troppo legato allo stereotipo del Re buono e ben disposto verso il suo prossimo, durante una battuta di caccia si fermò per riposare vicino una capanna. Incuriosito dalla ricotta di un pastore, volle assaggiarla e, in mancanza di una ciotola, ne ricavò una dalla crosta del pezzo di pane che lui gli aveva offerto. Il pastore ricevette in dono dal Re riconoscente dei cucchiaini d’argento che, economicamente, lo sollevarono dalla sua condizione di miserabile.
Tornando agli affari di stato, a Ferdinando fu consigliato dal padre Carlo III di liberarsi di John Acton. Il sovrano spagnolo, pur regnando a Madrid, lontano dal figlio, aveva dedotto, dal frenetico susseguirsi della serie di riforme attuate in campo militare nel Regno di Napoli, quanto fosse forte l ‘ ascendente che questo inglese esercitava sui sovrani di Napoli, addirittura la Regina Maria Carolina sarebbe stata disposta ad affidargli completamente gli affari di stato, ma Ferdinando IV non ascoltò i consigli paterni, né allora né quando, tempo dopo, decise che la “chinea”, tributo di ben settemila scudi d’oro versato annualmente al Papa, dovesse essere eliminata.
Abbiamo già accennato alla volontà di Carlo III di dotare la Capitale di edifici rappresentativi, anche Ferdinando volle farlo. Tra i veri e propri “siti” edificati durante il suo Regno vi fu il complesso di Carditello, il “Reale Casino di Carditello”, realizzato da Francesco Collecini nel 1787. Esso fu concepito come un “corpo centrale”, destinato agli appartamenti reali, affiancato da bassi padiglioni destinati a custodire animali e attrezzature agricole, perché lo scopo del sito era appunto essere una specie di azienda agricola in cui si allevavano cavalli e mucche e si producevano burro e formaggi.
La decorazione interna dell’edificio centrale fu affidata ad Hackert, anche se i danni del tempo e i traumi provocati dall’uomo (ad esempio durante la rivoluzione napoletana del 1799) hanno danneggiato i brani pittorici. Per fortuna i due bozzetti autografi, raffiguranti la vendemmia e la mietitura, non sono andati perduti e ci hanno svelato che, in abiti contadineschi, furono ritratti gli stessi Ferdinando, Maria Carolina e i loro figli.
Ben nota fu inoltre la passione di Ferdinando IV per la colonia dei fabbricanti di seta che aveva fondato a San Leucio, pochi chilometri da Caserta. Di questa istituzione il Re andava orgoglioso e se ne occupava personalmente giorno per giorno. L’innovazione rappresentata da questa Colonia, nata nel 1776, fu il contenuto del “Codice delle Leggi”, promulgato nel 1789 per regolamentare la vita degli abitanti.
L’istruzione era obbligatoria, era vietata ogni ingerenza dei genitori nei matrimoni dei figli, il merito era la sola distinzione tra gli individui, ogni lavoratore contribuiva ad una cassa della carità istituita per i vecchi e gli ammalati e si prescriveva che ogni anno i fanciulli e le fanciulle venissero vaccinati contro il vaiolo.
Intanto la Francia era scossa dai moti rivoluzionari e molti profughi, giunti a Napoli dopo la caduta della Bastiglia, testimoniavano con i loro racconti ciò che stava accadendo in quella nazione. Gli equilibri internazionali stavano per crollare e la Regina Maria Carolina era preoccupata per la sorte di sua sorella Maria Antonietta.
A Napoli il 12 dicembre 1792 giunse una squadra di navi francesi agli ordini dell’ammiraglio Latouche-Tréville per esigere il riconoscimento della Repubblica, proclamata da un paio di mesi. A malincuore, per evitare di rispondere con le armi, Ferdinando IV accettò, ma segretamente stipulò un patto con Londra. Il Regno delle Due Sicilie intervenne schierando seimila soldati al fianco degli Inglesi e degli Spagnoli nella difesa di Tolone, fu sconfitto, ma la battaglia fu un’occasione per consolidare il legame fra Napoli e Londra. Il primo agosto del 1798 i Francesi furono tenuti a bada dai vascelli guidati da Nelson, il quale, sconfiggendo la squadra di Bruyes nella baia di Abukir, bloccò in Egitto il corpo di spedizione di Napoleone. Furono preparate accoglienze trionfali per l’ammiraglio Nelson che stava per rientrare a Napoli.
Ferdinando IV aveva in mente il piano di sfidare la Francia, ma era molto titubante. Al contrario Nelson, pieno di entusiasmo, pensava che fosse necessario agire e marciare su Roma per ristabilire il potere temporale e allontanare la minaccia dei Francesi dai confini borbonici. Il Re si decise a farlo, ma fu una catastrofe: le truppe borboniche conquistarono Roma senza difficoltà, ma furono tratte in inganno dalla falsa intenzione dei Francesi di ritirarsi che si tramutò in un attacco di questi ultimi con tutte le forze che rimanevano loro a disposizione.
I versi di un poeta popolare definiscono così l’azione di Ferdinando IV a Roma: << il re don Ferdinando/ in pochissimi dì/ venne, vide e fuggì >>8. Intanto i Francesi, guidati dal generale Championnet, si dirigevano rapidamente a Napoli. La città si trasformò in un campo di battaglia con i suoi abitanti, fedeli al Re nonostante li avesse abbandonati al loro destino, che si armavano, assaltavano i forti e si battevano sia contro l’invasore sia contro i giacobini che, dall’interno, gli spianavano la strada, mentre Ferdinando e Maria Carolina, sull ’ ammiraglia di Nelson, la “Vanguard”, fuggirono a Palermo.
La Repubblica sarebbe durata sei mesi, cioè fin quando il cardinale Fabrizio Ruffo, marciando dalla Calabria, non la fece crollare spalleggiato da Nelson che gli garantì la copertura navale. Quel “cardinale guerriero” sosteneva che a ben poco servisse giustiziare i giacobini ribelli, quindi sottoscrisse un trattato col quale si permetteva loro d’imbarcarsi per Tolone, ma quel provvedimento deluse il Re, la Regina, Acton e Nelson, desiderosi di una punizione esemplare. Rifugiato a Palermo, il sovrano visse giorni agitati, sebbene la sconfitta della Repubblica gli restituiva il Trono, egli non si decideva a tornare a Napoli e temeva, una volta rientrato, il confronto con i suoi concittadini infedeli.
Progettava di tornare solo quando il trono sarebbe stato di nuovo al sicuro, ancora vivi erano in lui i ricordi degli orrori della Rivoluzione Francese. Il pittore Saverio Della Gatta avrebbe poi raffigurato il “Ritorno di Ferdinando dalla Sicilia dopo il 1799”.
Le ragioni del fallimento della Repubblica Partenopea furono molteplici, storici e intellettuali hanno esposto varie teorie, tra queste vi sono quelle dello storico Vincenzo Cuoco, il quale sintetizzò nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799” alcune cause: i patrioti napoletani commisero probabilmente l’errore di aver voluto applicare il regime e la Costituzione della Francia ad un popolo diverso per tradizioni, costumi, struttura economica e politica; Cuoco scrive che a Napoli, e in Italia in genere, esistevano “due nazioni diverse” per cultura, linguaggio e costumi, una delle quali era la minoranza, intellettuale e progressista, l’altra era la massa popolare che si muoveva << non per raziocini ma per bisogni >>9.
Il 31 gennaio del 1801 tornarono a Napoli l’erede Francesco e la sua famiglia, ma non Ferdinando, per questo il cavaliere Acton dovette promettere ai senatori e ai rappresentanti della classe nobile che presto gli avrebbe riportato il Re in persona.
Il sovrano era intanto rimasto solo a Palermo, poiché la sua consorte Maria Carolina era a Vienna con le principesse e Acton era a Napoli con il principe ereditario Francesco. Alcuni hanno scritto che fu quello un periodo spensierato, lontano dai nervosismi della Regina e dalla pedanteria di Acton.
Fu nel giugno del 1802 che Ferdinando tornò a Napoli, accolto dalla gioia dei suoi sudditi, mentre a Maria Carolina, rientrata un paio di mesi dopo, non fu manifestata la stessa calorosa accoglienza.
Pochi anni dopo, nel 1806, seguì un’altra fuga a Palermo, questa volta il Re raggiunse la Sicilia perché Napoleone, al culmine della sua ascesa, ormai Imperatore a Parigi e Re in Italia, assegnò Napoli al fratello Giuseppe, dopo poco sostituito da Gioacchino Murat.
Nella parte continentale del Regno di Napoli si consolidò l’esperienza del decennio francese, mentre in Sicilia ci furono turbolenze e cresceva la tensione con gli alleati d’oltre Manica. I “successori”, diciamo così, di Nelson e di Hamilton erano decisi ad imporre la loro politica e perfino ad esautorare il Re. Questi era stato abbandonato da Acton e viveva ormai lontano anche dalla consorte Maria Carolina, costretta dagli Inglesi a trasferirsi a Vienna perché tentava di opporsi alle loro manovre.
A ridare a Ferdinando IV la speranza di rivedere Napoli fu il declino napoleonico, con la disastrosa campagna di Russia e la disfatta di Lipsia, ma proprio mentre il sovrano riacquistava la fiducia nel futuro, fu colpito dal lutto per la morte di Maria Carolina, avvenuta a Vienna.
Nel 1815 il Congresso di Vienna riconsegnò il Regno di Napoli a Ferdinando IV, che contemporaneamente era Ferdinando III in Sicilia, e lo nominò Ferdinando I delle Due Sicilie. Il sovrano si avviava ad affrontare gli ultimi dieci anni di vita, la sua morte avvenne il 4 gennaio 1825, anni in cui si trovò a fronteggiare i moti carbonari del 1820, a dover concedere la costituzione e ad avere allo stesso tempo la possibilità di abrogarla affidandosi alle truppe austriache, rimaste poi nel Reame per evitare la diffusione di iniziative rivoluzionarie nei territori delle potenze europee che avevano aderito alla Santa Alleanza.
Lo scrittore Campolieti conclude il suo libro, “Il Re Lazzarone”, con una frase che riassume la personalità di questo particolarissimo sovrano: << un altro Ferdinando, vero re e vero padre, così vicino e simile all’ultimo dei suoi sudditi, [Napoli] non l’avrebbe avuto mai più >>10.
In questo breve excursus storico ho cercato di riassumere in che modo i due Borbone si siano abituati negli anni a misurarsi con le vicende di questo Regno, il più esteso fra i territori in cui all’epoca era frazionata l’Italia, che pian piano si consolidava e che era composto da ben 22 province: Napoli, Terra di Lavoro, Principato Citeriore, Principato Ulteriore, Basilicata, Capitanata, Terra di Bari, Terra d’Otranto, Calabria Citeriore, 2° Calabria Ulteriore, 1° Calabria Ulteriore, Molise, Abruzzo Citeriore, 2° Abruzzo Ulteriore, 1° Abruzzo Ulteriore, Palermo, Messina, Catania, Girgenti, Noto, Trapani e Caltanissetta.
Immaginiamo quanto non sia stato facile per Carlo III e Ferdinando IV, i primi due veri sovrani del finalmente autonomo Regno borbonico, governare una compagine di territori così varia della quale, nei capitoli successivi, esamineremo abiti, costumi ed uniformi dei vari ceti sociali e il loro profilo socio-antropologico.
Capitolo II
Abbigliamento delle classi del Regno:
costumi popolari; uniformi militari; abiti di corte.
2.1 Costumi popolari
Un noto proverbio recita “l’abito non fa il monaco”. Eppure proprio gli abiti indossati dalla popolazione, in una determinata epoca ed in una determinata area geografica, ne disegnano il ritratto: ci forniscono indizi sul tenore di vita dei singoli ceti, sul loro stile, sulle abitudini di persone vissute secoli fa. Nello specifico, i costumi delle classi del Regno di Napoli costituiscono un tesoro prezioso poiché sono il risultato di molteplici influssi, greci, orientali, aragonesi, catalani, francesi, ecc. che, nel corso dei secoli e durante le varie dominazioni, la città ha assorbito e poi rielaborato a modo proprio.
Gli abiti del secolo XVIII testimoniano la ricchezza del patrimonio di storia, arte e tradizioni locali del Sud Italia proprio nel momento in cui, in tutta Europa, si dedica grande attenzione al folclore dei vari paesi. I viaggiatori del Grand Tour e l’élite culturale europea in genere, sono attratti dal Regno di Napoli.
Le scoperte di Pompei ed Ercolano, il Vesuvio, le bellezze naturali dei dintorni di Napoli inducono personaggi della cultura internazionale, come Sir William Hamilton e l’Abbé de Saint-Non, a dedicare a questi luoghi importanti pubblicazioni ed ispirano artisti come Hackert a realizzare straordinarie vedute.
Il costume, che nel tempo resta la testimonianza del “gusto” di un determinato momento storico, prima venne rappresentato all’interno di questi paesaggi e vedute, poi gradualmente divenne “figurina” che si affrancò dal contesto fino a divenire il soggetto autonomo della rappresentazione.
La raccolta che precede tutte le successive raffigurazioni del costume napoletano è l’opera “Raccolta di varii Vestimenti ed Arti del Regno di Napoli” di Pietro Fabris, pubblicata nel 1773 con dedica ad Hamilton. Questo artista aveva già realizzato vedute, scene di genere, costumi incisi o dipinti e illustrazioni di libri guadagnandosi un posto di rilievo tra gli artisti presenti a Napoli nella seconda metà del Settecento.
Con questa serie di tavole volle rappresentare non solo il volgo, ma anche le altre classi sociali in scene di vita quotidiana: all’altezzoso “Uomo delle colline di Posillipo”, nella sua elegante giamberga1, si oppone la semplicità dell’abbigliamento dei “Pescatori” o del “Verdummaro” o dell ’ ”Aquatoro Napolitano”. Vi sono inoltre la “Donna Pozzolana”, la “Donna dell’Isola d’Ischia”, la “Luciana”, la “Zingara calabrese”, il “Friggitore di Scagliozzi”, lo “Zampognaro” e molti altri personaggi che, anche a distanza di venti, trenta anni, continuarono ad influenzare le raffigurazioni dei costumi popolari.
L’interesse tipicamente illuministico per il costume delle diverse classi sociali si era ormai diffuso in tutta Europa: pubblicazioni sull’argomento uscirono in Francia, Inghilterra ed Austria.
Nel Regno di Napoli, oltre alla raccolta di Fabris, ne fu pubblicata un’altra venti anni dopo, la “Raccolta di Sessanta più belle Vestiture che si costumano nelle provincie del Regno di Napoli”, pubblicata presso Vincenzo Talani e Nicola Gervasi nel 1793, ma il contributo più importante dato alla rappresentazione dei modi di vestire delle popolazioni nelle province del Regno fu sicuramente il reportage iconografico voluto da Ferdinando IV nel 1783.
Antonio Paolucci, Soprintendente per i Beni Artistici e Storici di Firenze, nella presentazione del catalogo di mostra “Napoli-Firenze e ritorno” scrive: <<Nel 1783 Ferdinando IV re di Napoli affidava ai pittori Alessandro D’Anna e Antonio Berotti il compito di documentare i costumi del Regno, le fogge e gli abiti caratteristici delle varie plaghe del suo dominio. Nel clima illuminista e scientista di quegli anni, l’incarico sovrano può essere paragonato alla commissione di una vera e propria campagna fotografica con obiettivi di rilevamento etnografico e di testimonianza civile>>2. Passarono una quindicina d’anni (1785 – 1799) prima che la coppia di pittori D’Anna e Berotti (in seguito diventata Santucci e Berotti), vincitori del concorso indetto per documentare i vari modi di vestire degli abitanti del Regno, completassero il capillare giro di ricognizione nelle varie province del Regno disegnando ed annotando le differenze di vestiario delle varie zone: da Terra di Lavoro alla provincia di Salerno, dal Molise alla Terra di Bari, dall’Abruzzo alla Basilicata, ecc...
Nell’Europa illuministica si stava risvegliando un notevole interesse per i vari modi di vestire dei popoli antichi e moderni ed in particolare per i costumi popolari, poco conosciuti e documentati fino ad allora. Il Regno di Napoli era una realtà particolarmente ricca da questo punto di vista, come notò anche J.C. Richard Abbé de Saint-Non: <<Quant aux costumes des Napolitans, ils sont aussi variés que le language >>3.
Harold Acton, nel volume “I Borboni di Napoli (1734-1825)”, riferisce che già Carlo III aveva un certo interesse per i costumi, anche se si trattava di quelli del Presepe, che la stessa Regina e le Principessine cucivano e ricamavano per le statuette.
Qualcuno ha attribuito alle inclinazioni “popolari” di Ferdinando IV la sua attenzione per i costumi, affermando che egli nutrisse una vera e propria curiosità per il mondo della plebe urbana e rurale. In parte questo è vero, perché nella società di corte napoletana di fine Settecento l’uso del costume fu incentivato proprio dal sovrano e lui stesso, imitato da diversi nobili del Regno, amava indossare costumi popolari.
L’incarico affidato a D’Anna e Berotti sarebbe stato quindi una specie di “esperimento sociale” di un re che amava interessarsi del suo popolo e sul quale la letteratura si è sbizzarrita a scrivere di tutto e di più.
Ancora Harold Acton, sempre nel volume “I Borboni di Napoli (1734-1825)”, affermando che l’unico “esperimento sociale” di Ferdinando IV fu la colonia di S. Leucio, aggiunge: << I suoi nemici lo accusarono di averla fondata per la soddisfazione delle sue brame, dato che aveva un debole per le robuste ragazzotte di campagna >>4.
E’ certo che l’indagine svolta per conto suo dai due pittori faceva parte della politica economica e culturale che il sovrano attuò negli anni Ottanta del suo Regno.
Influenzato da idee di stampo illuministico, egli aveva fatto realizzare importanti progetti, come la Colonia di San Leucio per la lavorazione della seta, i cui coloni erano stati dotati dal Re di un costume in prezioso tessuto che era elemento aggregante di quella comunità, e come l’azienda agricola di Carditello.
Aveva inoltre affidato a Philipp Hackert l’incarico di dipingere i porti del Regno e ad Antonio Rizzi Zannoni quello di eseguire rilevamenti topografici raccolti poi nell’Atlante Geografico del Regno di Napoli; aveva infine ordinato a Giuseppe Maria Galanti un’inchiesta sulle condizioni economiche delle varie province.
Quest’ultimo, insigne giurista ed economista ed allievo del filosofo Genovesi, denunciò, attraverso i suoi scritti, la critica condizione economica, sociale, giuridica ed amministrativa in cui versava il Regno di Napoli sul finire del secolo XVIII.
Con la sua “Descrizione dello stato antico ed attuale del Contado del Molise” Galanti si era già guadagnato la stima di Ferdinando IV che in seguito gli diede l’incarico di estendere questa sua indagine a tutte le province del Regno al fine di delineare un quadro completo della situazione.
Lo studioso intraprese diversi viaggi, raccolse numerosi dati e li inviò al Re in una serie di relazioni scritte. Queste notizie sullo stato dei luoghi e sulle condizioni di vita degli abitanti confluirono nell’opera “Descrizione geografica e politica delle Sicilie” che fu tradotta in francese, tedesco ed inglese perché si comprese l’importanza del suo contenuto: necessità di urgenti riforme nella struttura dello Stato, uguaglianza dei ceti sociali dinanzi alla legge, abolizione di arbitrii e privilegi feudali e rilancio dell’economia.
I primi tre tomi dell’opera di Galanti trattano dello stato politico e finanziario del Regno ed il quarto della descrizione della Campania nei suoi particolari storici, fisici e umani, ma è interessante soffermarsi sul capitolo quarto del quinto tomo, dedicato alle Arti e Manifatture.
In esso l’autore ci descrive vari problemi legati alla produzione dei costumi: dalle materie prime ai procedimenti di lavorazione, dai costi alle mode, ecc..
Galanti osserva che, nonostante a Napoli si fabbrichi una gran varietà di stoffe, da quelle molto semplici a quelle più preziose, come rasi, velluti e damaschi, le manifatture non eguagliano la bellezza di quelle realizzate a Lione e questo perché mancano nel Regno delle scuole, eccezion fatta per la scuola dell’Azienda di educazione, che si trovava nel convento del Carminiello e grazie alla quale si producevano calze raffinate quanto quelle francesi, e per la scuola di S. Leucio che realizzava capolavori in seta.
Galanti lamenta inoltre la mediocrità dei lavori in lana, i difetti dei panni prodotti ad Amalfi ed Avellino e ci riferisce che l’unica lana di buona qualità, quella prodotta in Puglia, non viene utilizzata nel Regno ma acquistata da commercianti francesi e veneziani che, a loro volta, la esportano alle altre nazioni.
Due osservazioni dell’autore sono importanti: la prima è che sarebbe stata indispensabile la presenza di fabbriche per confezionare gli abiti del popolo in tutte quelle province in cui mancavano, come la Calabria. Queste fabbriche avrebbero permesso che le particolari “fogge del vestire”, diverse in ogni provincia, fossero prodotte sul posto; la seconda è che il Re avrebbe dovuto impiegare capitali per incentivare l’industria manifatturiera e fare in modo che questa diventasse talmente prestigiosa da indurre persino i nobili, che di solito ricercavano sete orientali e stoffe francesi, a preferire i capi confezionati nel Reame a quelli confezionati all’estero.
Negli Archivi di Stato di alcune province, Teramo ad esempio, sono conservati verbali di sequestri di tessuti (rotoli di panno e di tela bianca), di semi di piante da fibre tessili (lino, canapa), di pelli (pelli di pecora e pelli di lepre) e di bozzoli di bachi da seta fatti uscire o entrare di contrabbando nelle zone di confine tra il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio.
I verbali testimoniano l’esistenza della coltivazione di fibre tessili e dell’allevamento dei bachi da seta e dimostrano che c’erano attività di una certa importanza alle quali si devono aggiungere le attività artigianali domestiche, non menzionate, i cui prodotti erano però destinati al solo consumo familiare.
L’indagine conoscitiva di Galanti fu di natura giuridico-economica, suffragata dalla propria esperienza personale di avvocato.
Anche quella dei pittori D’Anna e Berotti fu un’indagine, una campagna di rilevazione fatta per conto del Re, ma aveva in più un secondo scopo: quei loro disegni e dipinti degli abiti delle varie province sarebbero diventati, nelle mani dei pittori interni della Real Fabbrica5, decorazioni su porcellana.
Oltre ad essere piccole opere d’arte, questi preziosi lavori ebbero una funzione didattica: divulgare le vere immagini dei costumi del Regno.
Inoltre il motivo figurativo dei costumi fu utilizzato anche nel settore specifico dell’incisione. Gli schizzi originali delle vestiture, utilizzati come modello per la produzione della Real Fabbrica della Porcellana, divennero ben presto un “genere” con una propria autonomia ed il Re dispose nel 1794 la trasposizione su rame, dai modelli originali, da eseguirsi presso la Stamperia reale (nella duplice versione di incisione a tutto campo ed incisione di solo contorno destinata alla coloritura) e nel 1795 pose inoltre una privativa sulle stampe uscite da torchi reali per bloccare ogni tentativo di falsificazione affidando l’esclusiva della vendita al mercante Vincenzo Talani.
Si ipotizzò che proprio quest’ultimo avesse abusivamente pubblicato nel 1796, con una datazione falsa (1790-93) per sfuggire alle sanzioni, la “Raccolta di Sessanta più belle vestiture che si costumano nelle province del Regno di Napoli”, ma è stato osservato che le immagini utilizzate nella raccolta sono diverse da quelle delle incisioni reali e circolavano già precedentemente al 1795, anno della privativa reale.
L’iniziativa del Talani è solo un esempio di quello che accadeva nel corso di quegli anni, durante i quali si pubblicarono altre raccolte, di autori locali o stranieri, di immagini riguardanti i costumi popolari, poiché si doveva soddisfare la richiesta di una committenza desiderosa di riportare in patria ricordi dei luoghi visitati.
Miniature su porcellana, gouaches, incisioni, piccoli pannelli ricamati e costumi in vendita contribuirono insomma a diffondere in Italia (ad esempio in Toscana, dove giunsero 208 gouaches, dono ai Borbone-Lorena) ed in Europa un’immagine ricca di luce e di colore di Napoli e del suo Regno attraverso i variegati abiti della sua popolazione.
Si venne a conoscenza, grazie alla diffusione delle immagini ritratte dai due pittori del Re, dei messaggi culturali contenuti nei modi di vestire di tutte le popolazioni, non solo quelle che vivevano in centri ben collegati fra loro e con Napoli, ma anche le altre che, abitando in territori accidentati e poco accessibili ai viaggiatori per mancanza di reti stradali, erano ingiustamente rimaste fino ad allora nell’ombra.
Le immagini dimostrano inoltre che le novità culturali in genere, e nel settore dell’abbigliamento in particolare, riuscivano in un modo o nell’altro a penetrare in tutti i territori del Regno, anche in zone faticosamente raggiungibili, perché vi erano persone sempre pronte a recepirle e rielaborarle a modo loro con gli umili mezzi a disposizione.
Nonostante la gente comune versasse in uno stato di profonda miseria ed il suo malcontento venisse fuori proprio nel periodo in cui fu effettuata questa campagna di rilevazione, cioè il quindicennio che precedette i moti del 1799, le immagini di questi abiti rivelano modelli curati nei minimi particolari.
In tali vestiti non sembra esservi traccia degli stenti lamentati più volte a voce alta, con agitazioni ed insurrezioni, dalle popolazioni e questo per tre motivi.
Il primo è che quei costumi popolari non erano semplici indumenti, ma simboli di identità locale e orgoglio di quelle comunità che li trattavano come una ricchezza da proteggere e tramandare, in ambito familiare, di generazione in generazione. Alcune guarnizioni, come merletti o ornamenti d’oro e d’argento, la stessa “tovaglia” o panno da testa damascato, venivano trasmessi da madre a figlia come bene dotale.
In questo modo, lo stesso modello poteva perpetuarsi per alcune generazioni prima di subire variazioni.
Il secondo motivo è che essi, in contrasto con immagini in cui vi sono donne ritratte a lavorare nei campi o ad eseguire lavori domestici e con immagini in cui alla plebe delle campagne mancano persino le scarpe, sono probabilmente quelli indossati in occasioni festive e cerimoniali: i disegnatori, inviati dal Re in persona nei territori del Reame, preferivano inviare a Napoli immagini dignitose e rassicuranti che provassero le buone condizioni in cui vivevano i sudditi.
Il terzo è che fino a tutto il secolo XVIII, le donne delle aristocrazie rurali e delle fasce sociali medie, le artigiane, condividevano con le donne dei gruppi agropastorali lo stesso tradizionale modo di vestire, perciò molti abiti delle popolane ritratte traggono in inganno: queste figure femminili non si possono attribuire con certezza all’uno o all’altro ceto e mascherano le reali condizioni di miseria della popolazione di molte province del Regno.
A tutto questo si aggiunga il fatto che spesso i poveri, con amaro umorismo, copiavano i ricchi abiti di corte, come annota Saint-Non descrivendo gli abiti da festa del popolo: << sont toujours composés de la friperie des galas de la cour : aussi voit-on souvent le dimanche un homme du peuple en habit fond d’or, avec une veste ou une culotte de drap bleu , des bas de soie , le filet ou le petit bonnet de coton blanc à la tete >>6.
Vi sono invece personaggi che si possono identificare con sicurezza, come i contadini, poiché accanto a loro si notano attrezzi agricoli, quali zappa, vanga, falce fienaia, ecc., e anche fasci di spighe, fasci d’erba tagliata e persino specifici copricapi, come fazzoletti legati alla nuca per detergere il sudore, cuffie e cappelli usati per proteggersi dai raggi solari.
Altri ancora sono identificabili come pastori, come venditori ambulanti di mozzarelle, di ciliege, di granaglie, di ciambelle, di agli, ecc.; come tessitrici, vasaie, portatrici d’acqua e lavandaie.
Le figure, accompagnate dalla didascalia con il nome della località cui l’abito fa riferimento, si presentano secondo varie tipologie: la sola immagine femminile, solo quella maschile o entrambe nello stesso foglio; in altre, bambini e cani si affiancano ai personaggi maschili e femminili e panorami di interi paesi vi fanno da sfondo, come fossero cartoline.
Pur essendoci differenze tra un territorio e l’altro, nei costumi vi sono elementi comuni a tutte le province e a tutte le classi sociali, soprattutto nell’abbigliamento femminile. Uno di questi è il copricapo.
Esso è quasi sempre presente, sia nelle figure femminili che in quelle maschili, perché, oltre ad essere elemento d’identità locale, arricchito da trine, fiori e nastri, è anche indispensabile alle popolazioni del Regno condizionate dal clima dell’Italia Meridionale e costrette a ripararsi dal caldo sole estivo.
Il copricapo è inoltre “segno” che indica lo stato sociale della donna: in alcune zone veniva portato “piegato in quattro” da chi era nubile, e “a turbante” da chi era sposata.
Alcune donne indossavano un ampio fazzoletto trinato, talvolta lungo fino alla vita; altre legavano semplicemente un panno intorno al capo; altre ancora usavano i propri capelli, racchiusi in trecce raccolte intorno alla testa come manici d’anfora, come ampio appoggio per due fazzoletti piegati “a tegola” e tenuti da spilloni.
Dei copricapi erano vere e proprie acconciature, come quelle delle donne di Sessa Aurunca che prevedevano capelli racchiusi in trecce raccolte ai due lati della testa, che coprivano in parte fronte e tempie, al centro delle quali veniva appoggiata una striscia di merletto, piegata in due a forma di “V” fin sulla fronte.
Come i copricapi, così i corsetti, le giacche, le camicie e le gonne variavano da zona a zona per tipologia, stoffe e dimensioni.
La maggior parte delle gonne, tessute in panno di lana o con fili misti di cotone bianco e di lana colorata, erano di una tinta scura (blu, marrone, viola, nero), alcune altre di una tinta più chiara, ottenuta con succhi vegetali estratti dalle foglie della pianta di sorbo, dalle bucce delle albicocche, o dalle foglie delle piante di carciofo.
Le contadine dovevano provvedere da sé al necessario per creare abiti: recuperare la lana alla filatura, alla tessitura ed alla tintura della stessa e ricorrere agli espedienti più originali per ottenere determinati colori, come la fuliggine dei camini per il nero e il mallo delle noci per il grigio.
Le donne appartenenti alle fasce più abbienti potevano permettersi di tingere la tela per le gonne in casa, con prodotti acquistati, o di inviarle alle tintorie o di importare direttamente tessuti come la tela di Cambrai, il velluto, la saja imperiale ed i taffetas.
Le gonne presentavano talvolta applicazioni di fasce policrome o galloni7 (dei quali splendidi esemplari venivano prodotti dalle seterie di San Leucio in una vasta varietà di disegni) accanto al bordo inferiore ed erano corredate di una sopra-gonna, spesso in tessuto rigido, di un grembiule dalle diverse forme (arricciato, rettangolare, triangolare, decorato con fasce orizzontali, ecc...) e di due tipi di sottovesti, in tela per l’estate e in lana lavorata all’uncinetto per l’inverno.
Le donne benestanti indossavano più gonne sovrapposte e per distinguersi dalle altre indossavano sopra di esse una giacca di una certa lunghezza.
Un altro indumento comune a tutte le figure femminili è la camicia: essa era di cotone bianco, di lino o di canapa e poteva essere ricoperta da un busto, per lo più nero, chiuso da lacci o da un vero e proprio corsetto con stecche. Spesso a quest’ultimo erano legate con nastri o fettucce maniche a sé stanti, elemento tipico dell’abbigliamento tradizionale settecentesco, che potevano essere sfilate per dare libertà di movimento durante i lavori domestici.
Diffuso era l’uso di indossare orecchini di varie forme ( a cerchio, a pendenti, ecc..) e collane sia in oro a grani, di varia lunghezza e dotate talvolta di croci o ciondoli circolari, sia di corallo ( i cui grani variavano di dimensioni a seconda delle possibilità economiche) ad uno o più giri e spesso anche esse dotate di una croce o di un ciondolo in oro.
Le calze erano lavorate ai ferri, anche se in alcuni centri ancora si continuavano ad usare modelli realizzati in pezza, con cucitura posteriore.
Le scarpe di cuoio grossolano, con bocchetta rovesciata o con fibbia e simili a quelle maschili, venivano indossate durante il lavoro, quelle in capretto durante le feste.
Tra tanti visitatori del Regno, vi furono alcuni che trovarono di cattivo gusto l’abbigliamento settecentesco delle donne del popolo e affidarono alla carta le loro impressioni.
In appunti presi durante un viaggio del 1793 nel Regno di Napoli, l’autore drammatico spagnolo Leandro Fernàndez de Moratìn scrisse di loro: << Molto brutte [ ... ] son ricoperte di galloni d’oro, di cui adornano le loro giacche di velluto e le loro sottane e grembiuli di seta: portano per lo più una cuffia molto piccola in cui raccolgono i capelli, bordata di oro, con grandi pendenti e collane di corallo, perline o perle >>8.
Al contrario altri, come la studiosa Ada Trombetta, hanno osservato che proprio quell’uso eccessivo di monili, guarnizioni ed accessori, che il Moratìn tanto disprezzava, svelava l ’ aspirazione delle donne del popolo ad una vita migliore, quasi come se, sfoggiandoli, avessero voluto dimostrare che le povere condizioni in cui versavano non erano riuscite né a demoralizzarle, né ad imbruttirle e né ad impedire loro di affermare la propria identità attraverso quegli abiti e quei gioielli.
L ’ abbigliamento maschile degli abitanti delle province del Regno, non diversamente da quello diffuso nel resto delle campagne italiane alla fine del Settecento, era caratterizzato da questi elementi: cappello, camicia, giacca, panciotto, pantaloni, cintura, calze e scarpe.
I calzoni erano fermati in vita da una fascia e arrivavano alle ginocchia dove una cinta terminante a fiocchi teneva ben tese le lunghe calze chiare.
Gli uomini indossavano camicie che avevano diverse forme, appena sopra di esse portavano un panciotto aperto sulla parte anteriore e su di esso una giacca con ampi paramani. La giacca maschile, giamberga, era l’elemento comune a tutti i centri, poteva variare in lunghezza ed era caratterizzata da bottoni neri ed asole dorate.
In inverno, sopra la giacca, era indispensabile la cappa, un caldo mantello in lana.
La testa era coperta da cappelli a falda larga, sotto i quali, soprattutto d’estate, si scorgevano cuffie o lembi di fazzoletti bianchi indossati perché durante il lavoro nei campi venisse assorbito il sudore e non si impregnasse il cappello.
Alcuni, come il filosofo inglese George Berkeley, ci hanno lasciato descrizioni minuziose di costumi maschili in uso presso determinate popolazioni del Regno.
La sua immaginazione fu colpita dagli uomini che abitavano l’isola d’Ischia, il cui costume era caratterizzato da un berretto di lana blu, una camicia, un paio di brache lunghe e, nella stagione fredda, giubbetti e calzoni di lana. Ci descrive il loro abbigliamento nel suo “Viaggio in Italia” del 1717: << La biancheria degli ischitani è tutta di canapa [...] il costume consiste in una berretta di lana, una camicia e un paio di mutande lunghe; quando fa freddo giubba e calzoni al ginocchio di lana. Portano su un fianco un pugnale decorativo, a lama larga e con la punta ricurva con la quale spesso si feriscono [...]. Gli ornamenti femminili sono dei grandi cerchi d’oro alle orecchie e, per le sposate, larghi anelli d’oro con pietre false alle dita, ma il principale segno di eleganza è un grembiule coloratissimo e ricamato in lamé [...] in questo modo si acconciano solo nei giorni di festa >>9.
A richiamare la descrizione di Berkeley c’è una delle tavole realizzate da Santucci e Berotti che raffigura una donna ed un bambino ischitani con accanto dei ventagli di rafia, lavori in paglia tipici dell’isola. Seduto su di un muretto, il bambino veste pantaloni stretti al ginocchio, camiciola di canapa e giubba di velluto senza maniche. La donna è in piedi e di profilo, ha il capo coperto da una “magnosa”, tovaglia di tela di lino bianchissima che le nasconde delle “navette”, cioè degli orecchini con fili d’oro o d’argento e pendenti di perle; indossa una gonna a piccole pieghe, una giubba ricamata in velluto ed un grembiule lavorato ai bordi. Ai piedi porta scarpe simili a zoccoli o pantofole con “guigge” d’oro e seta arabescate, cioè strisce per allacciare le calzature.
I costumi popolari, frutti della cultura dei luoghi a cui appartengono, non sono un qualcosa di statico, anzi mutano nel tempo, influenzati dall’evoluzione della moda e della società, sebbene questo loro cambiamento sia lento e graduale, poiché il costume conserva dignità e prestigio tramandandosi di generazione in generazione così come è, mentre i comuni abiti soggetti alla moda per essere apprezzati non devono somigliare a quelli che li hanno preceduti, ma rinnovarsi rapidamente.
Inoltre è la collettività, fortemente legata alle tradizioni, a stabilire cosa si possa o non si possa cambiare di un costume popolare, mentre l’abito alla moda dipende esclusivamente dalla volontà del singolo stilista che lo crea.
Determinati costumi popolari sono poi abbinati, nell’immaginario collettivo, a determinate figure, come nel caso dell’austero pastrano in pelle di pecora o montone, i coturni di pelle alle caviglie e le grosse scarpe, indossati dai briganti nel Settecento, che hanno contribuito a crearne il personaggio.
All’inizio di questo paragrafo si sottolineava il fatto che i costumi popolari raffigurati dai pittori di Ferdinando IV non sono abiti indossati quotidianamente dagli abitanti del Regno, ma costumi tenuti da parte per le occasioni: feste e cerimonie.
Una di queste particolari occasioni era il Carnevale.
Il periodo di Carlo III e di Tanucci era stato per il Carnevale un’epoca di austerità, durato fino al 1773, in cui molti divieti avevano limitato le attività carnevalesche della corte e dell’aristocrazia. Quando non vi fu più l’influenza di Tanucci a corte, nel 1774 il Carnevale s’impose nuovamente per le strade e nelle case e alle pubbliche iniziative, come le sfilate dei carri in via Toledo, le giostre, i caroselli e l’allestimento delle “Cuccagne”, si aggiunsero numerose feste reali.
Nei secoli XVII–XVIII il Carnevale fu soprattutto la festa della corte e dell’aristocrazia.
Dovrà giungere la fine del XVIII secolo perché gli “Avvisi” ufficiali del Regno diano risalto alla celebrazione del Carnevale Popolare. Prima che questo accadesse, già i viaggiatori stranieri, quasi snobbando la classe dirigente del Regno, volsero la loro attenzione agli usi e costumi del popolo e soprattutto agli abiti indossati dalle classi popolari durante questa festa.
La nobiltà preferiva i veglioni ed i balli nelle case dei nobili durante i quali poter mettere in evidenza i propri abiti sontuosi, mentre le buffe maschere carnevalesche che sfilavano nelle strade di Napoli servivano al popolo per beffeggiare l’aristocrazia, il ceto delle corporazioni e dei mestieri e la stessa plebe.
Le maschere più caratteristiche erano: La vecchia, Lo spagnolo, Il medico, Il cavadenti, Pascalotto, Don Nicola, Il paglietta calabrese e Giangurgolo.
La Vecchia del Carnevale era colei che portava il celebre Pulcinella a cavallo sulla sua schiena e, per dare l’impressione che lui si trovasse in questa posizione, si ricorreva ad uno stratagemma: all’abito bianco del popolano che interpretava Pulcinella si sovrapponeva una gonna lunga e scura ed all’altezza del suo stomaco si sistemavano la testa e la parte superiore del busto di una donna anziana, entrambi fatti di paglia, con braccia anch’esse false, che fingevano di reggere le gambe spalancate, in paglia, di Pulcinella.
Lo Spagnolo era invece un uomo vestito con mantelletta, cappello piumato, e merletti sulle scarpe.
Una delle maschere più note era quella del Medico: giamberga di colore verde carico, lunga fino ai piedi, larga e piena di ritagli d’argento appesi alle falde, alle maniche ed al bavero e calzoni corti. In testa aveva una parrucca di carta bianca e rossa ed infine un unico occhiale grandissimo.
Il Cavadenti era una maschera affine a quella del Medico: indossava un vecchio e sbiadito frac, aveva sul capo un sudicio cappello a tre punte e sul naso un paio di mastodontiche lenti affumicate.
Pascalotto era il personaggio che apriva il Carnevale: un uomo vestito con abiti da donna, con finti seni procaci ed il viso tinto di minio che lo rendeva rosso come il fuoco. Era armato di un tamburello e cantava e ballava in strada.
Il Don Nicola entrò a far parte del Carnevale Napoletano nel Settecento. In testa indossava il tricorno, cappello a tre punte, gallonato da un nastro nero con fiocchetti a ciascuna delle punte, che poggiava su una parrucca di stoppa. Portava gli occhiali tondi ricavati da una buccia d’arancia e la sua camicia aveva il colletto a vela, grande ed appuntito che fuoriusciva da un panciotto fiorato, sopra al quale aveva una giamberga arabescata. I suoi pantaloni, secondo l’uso settecentesco, arrivavano al ginocchio e le scarpe avevano una grossa fibbia.
Egli rappresentava la figura dell’avvocato e quando passeggiava per le strade di Napoli, recitando filastrocche, era accompagnato da un servitore in livrea con ombrello e sacca da viaggio.
Una specie di antenato del Don Nicola è il Paglietta Calabrese. Era una parodia dell’uomo di legge o dello studente di legge, in particolare dello studente calabrese.
Tipica dell’epoca era infatti la satira nei confronti dei provinciali: nelle canzoni del Carnevale delle Corporazioni si prendeva di mira il misero pasto degli studenti calabresi che frequentavano l’Università di Napoli.
Il calabrese veniva definito “paglietta”, cioè avvocaticchio, e considerato un provinciale tonto che, spinto dalla fame, chiedeva ai farenari napoletani di poter partecipare al carnevalesco “saccheggio del pane”.
Il suo abbigliamento era simile a quello del Don Nicola: giamberga, cappello a tre punte, occhiali, pantaloni al ginocchio e scarpe con grossa fibbia.
Maschera tipica della Commedia dell’Arte era il Giangurgolo, il cui nome derivava dall’unione di “Gianni” e “gorgo”, cioè ghiotto. Si trattava anche questa volta di una parodia dei calabresi ed il personaggio era contraddistinto da un cappello a corno, reso buffo dalla mancanza di falda, da una maschera rossa che gli copriva il naso e la fronte, da corpetto, camicia, brache a liste rosse e gialle e spada lunga. Questo tipo di abbigliamento faceva pensare a quello di un capitano dell’esercito spagnolo, ma di estrazione periferica, gradasso e megalomane.
Originali erano poi le maschere ispirate ai popoli orientali: nel 1774 ci fu a Napoli un imponente ballo in maschera nel quale venne allestito un carro trionfale ottomano. I suonatori, turco-anatolici e mori, erano guidati da un personaggio particolare il “Metherbasi”, con la sua mazza di comando, una lunga sopravveste in seta gallonata in oro, il caratteristico turbante sul capo e l’immancabile sciabola.
Belle erano anche le maschere ispirate agli abiti delle orientali, queste fanciulle dai lineamenti fini e le acconciature ricercate, ingioiellate e munite di “canciaro”, in ottone e pendente da una catenella, arma somigliante a preziosi pugnali con lama turca facenti parte dell’armeria di Ferdinando IV e riprodotti dalla Real Fabbrica in occasione delle mascherate. L ’ “Odalisca” era forse la maschera femminile, ispirata all’Oriente, più nota, caratterizzata da vesti di seta racchiuse da un ampio e rigonfio manto, con i capelli raccolti all’indietro e solo qualche ciocca ondulata libera di ricadere sul collo, indossava ai piedi preziosi sandali infradito.
Attraverso i costumi, siano essi vestiti di tutti i giorni o indossati in particolari occasioni o maschere indossate durante le feste, il popolo esprimeva se stesso. Fonte importantissima a cui attingere per giudicare questa varietà di abiti degli abitanti del Regno è sicuramente il Presepe Napoletano in cui, in scala ridotta, sono riprodotti i personaggi e i loro indumenti che, a seconda delle loro diverse caratteristiche, contraddistinguevano gli appartenenti ai diversi ceti della società napoletana settecentesca.
Prima del XVII secolo, queste statuine erano rigide, poi furono utilizzati esemplari con giunture a snodo per tutte le articolazioni delle figure in legno fino a giungere agli inizi del Settecento quando alle teste di legno si sostituirono le testine modellate in terracotta.
Il Presepe era quindi una consuetudine che a Napoli aveva già una sua antica tradizione, ma chi contribuì alla sua diffusione fu Carlo III, a sua volta contagiato dalla passione per le statuine di Padre Rocco, un domenicano, figura religiosa che alimentava con decisione lo spirito di devozione del sovrano e che fu un prezioso intermediario fra il Re e il popolo.
Si racconta che il religioso, poco prima di Natale, girasse per i negozi degli scultori e degli artigiani per giudicare il loro lavoro e dare loro consigli.
Con l’avvento di Carlo di Borbone la produzione presepiale, già forte di una solida tradizione artigiana, entrò nella sua fase di massimo splendore perché durante il suo regno le arti subirono un vigoroso impulso, in più al sovrano piacque a tal punto l’usanza del Presepe che in seguito volle introdurla in Spagna e si dice che egli stesso, lavorando la creta, modellasse delle statuine.
L’aristocrazia napoletana, seguendo l’esempio del Re, introdusse il Presepe nei propri sontuosi palazzi contribuendo ad arricchirlo in splendore e varietà. In particolare, alcune famiglie dell’alta aristocrazia affidavano agli artisti la formazione dei presepi e lo stesso Carlo III incaricò il pittore Nicola Rossi di occuparsi della scenografia del suo Presepe.
Per essere considerato completo, il Presepe doveva contenere tre ambientazioni: quella dell’Annunciazione, quella della Natività e quella della Taverna. Si faceva somigliare la Palestina ad un paesaggio napoletano e nelle varie scene c’erano figurine vestite con i costumi del Settecento, eccetto la Beata Vergine, San Giuseppe e gli Angeli che portavano vestiti tradizionali.
I Re Magi indossavano lunghi mantelli assai simili a quelli dei cavalieri di San Gennaro ed i loro seguiti erano vestiti con abiti che, nelle intenzioni di chi li aveva realizzati, dovevano somigliare ai costumi dell’Africa e dell’Asia, mentre contadini e pastori erano vestiti con abiti da festa dell’isola d’Ischia, di Procida e di altre località del Regno.
Il racconto evangelico si arricchiva così di personaggi prettamente napoletani, presi dalla vita di tutti i giorni: dalla castagnara alla zingara, vestita di una semplice camicia in tela bianca e di una misera veste in panno azzurro; dal cieco al macellaio, dal mendicante, vestito solo di pantaloni laceri in panno, all’arrotino. I semplici abiti di questi popolani contrastavano con la ricchezza delle stoffe orientali degli abiti dei Re Magi.
Le statuine di questi ultimi erano infatti vestite con ricchi manti in seta colorata, con ricami e frange in oro, su cappotti in seta foderati, ornati da ricchi galloni e maniche ricamate con merletti; i Re indossavano inoltre ricche casacche da viaggio, le giornee, interamente ricamate, brache in seta, calze, che potevano essere rigate, stivali in pelle chiusi da lacci e sciabole.
Tra coloro che confezionarono questi piccoli vestiti ci furono Matteo e Giovanni Ferri che s’ispirarono ai costumi di Terra di Lavoro, della Basilicata, dell’Abruzzo, della Calabria e di Procida e che ne curarono anche i più piccoli particolari.
Il costume femminile procidano, ad esempio, richiedeva che la statuina fosse vestita con una camicia bianca con trine, un corpetto in laminato argentato con galloni, una gonna in seta verde con bordo rosso, un grembiule bianco con frange in oro, un cappotto in seta verde con galloni argentati e bottoni in argento ed infine orecchini in oro.
Una moltitudine di argentieri, costruttori di strumenti musicali ed artigiani, compresi quelli di Vietri, si occupò quindi di realizzare piccoli accessori come minuscole brocche, piatti e vasi decorati secondo la migliore tradizione delle singole scuole. Persino la frutta in cera e le verdure impegnarono singoli artisti.
Per tutto il Settecento e fino alla metà del secolo successivo, la tradizione presepiale continuò a mantenersi viva.
Fra gli allestimenti presepiali settecenteschi più noti vi è il Presepe dei duchi Diego e Giovanna Battista Aragona Pignatelli di Monteleone che acquistò importanza dopo essere stato visitato dal viceré e dopo che la Gazzetta napoletana gli dedicò un articolo il 3 gennaio 1731, nel quale si faceva riferimento soprattutto alle sue scenografie, curate dal pittore paesaggista Michele Pagano, ai raffinati accessori delle statuine, eseguiti dall’orefice di corte Ignazio Imparato ed alle loro caratteristiche vestiture.
Tra gli estimatori del Presepe vi furono anche Ferdinando IV e sua moglie la regina Carolina che ne fecero allestire diversi: a Caserta, a San Leucio e a Portici, dove nel 1771 ne fu eretto uno talmente bello da essere definito “superbo” dalla Gazzetta di Napoli. Inoltre il Re, per rendere ancora più ricchi i suoi apparati presepiali, si servì di scenografi e pittori di corte, come Vincenzo Re e Antonio Joli e nel 1784 commissionò al celebre scultore Francesco Celebrano una serie di “pastori” e chiese che fossero vestiti con i costumi popolari del Regno.
Queste statuine furono rivestite con particolare cura, rispettando tutte le caratteristiche dell’abbigliamento degli abitanti del Regno. Con attenzione furono scelti colori, stoffe, guarnizioni, modelli, monili (anellini, collanine, orecchini che, a seconda della loro preziosità, indicavano lo status economico dell’individuo) e perfino accessori (panierini con cibarie o frutta tipiche dei luoghi di provenienza dei popolani modellati in terracotta policromata; strumenti musicali, coltelli, pipe, bastoni, ceramiche, ecc.).
L’attenzione particolare dedicata ai monili dava la possibilità, a chi osservava quelle statuine, di farsi un’idea sull’oreficeria del Settecento nel Regno di Napoli, in quei piccoli capolavori c’erano influssi di diverse aree geografiche, prima fra tutte quella spagnola, ma a Napoli e dintorni si diffuse la produzione di gioielli in pasta di vetro, quasi una “risposta” delle donne appartenenti ai ceti meno abbienti ai gioielli in diamanti indossati dalle nobili a corte.
La società rappresentata nel Presepe era quindi varia, vi erano campagnoli, popolani, rustici, mendicanti, borghesi, mercanti, bottegai, uomini, donne e bambini della città, della campagna, dei casali e anche delle isole.
Ne è un esempio una delle statuine di Celebrano, realizzata per Ferdinando IV, raffigurante un’isolana, una “Giovane procidana”, il cui abbigliamento è caratterizzato da un bustino in seta bianca laminata di argento, da un corpetto in seta gialla laminata di argento, dalla gonna e dal grembiule, entrambi in seta operata, da una zimarra10 foderata ed una camicia in lino con polsi e collo orlati di merletto.
Sempre di Celebrano è una statuina che raffigura un uomo con un’arpa, il “Suonatore di arpa di Viggiano”, il cui abbigliamento è quello tipico dei suonatori che provenivano dalle bande musicali di piccoli centri, come ad esempio Viggiano, ma erano attivi a Napoli nel Settecento: la giacca, il pantalone ed il mantello sono di canapa, il gilet di seta a coste sottili, la camicia e le calze di lino, le ciocie11, il berretto, la borsa e la cintura in pelle. L’arpa è un capolavoro in miniatura, fatto di mogano, avorio, madreperla e budella.
Tra le figure tipiche del Presepe troviamo i Georgiani, vestiti con giubbe in seta, galloni in oro, cinture in seta con ricami in oro, brache in seta, talvolta con motivo a quadretti, cappotti con guarnizioni con galloni d’oro e calze in seta. Gli accessori tipici del loro abbigliamento, e che ritroviamo sulle statuine che li raffigurano, sono: fascia in seta, con ricami e frange in oro, e scimitarre12 in metallo. Questi Georgiani venivano quasi considerati personaggi fantastici, la cui comparsa era seguita da schiere di servitori, portantini e valletti. In effetti tutto questo fasto era consuetudine presso le corti orientali e per realizzare i sontuosi abiti delle statuine che li raffigurano, e tutto il loro seguito, alcuni artisti s’ispirarono ad una cerimonia ufficiale tenutasi a Napoli nel 1741, a suggello delle trattative commerciali tra Carlo di Borbone ed il mondo orientale, e raffigurata in un dipinto di Giuseppe Bonito, conservato al Prado, a Madrid.
Questi ci ha lasciato anche alcuni disegni, studi preparatori per le figure che compaiono nel dipinto, inventariati presso la Società Napoletana di Storia Patria, che raffigurano dignitari turchi al seguito dell’Ambasciatore Hagi Hussein Effendi, inviato del sultano, che appunto visitò Napoli nel 1741.
In quell’occasione fu organizzato un corteo in onore degli ambasciatori turchi e tripolitani e nelle pagine de “Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone”, di Schipa, leggiamo in proposito che << si videro passeggiare per le vie di Napoli i componenti di un’ambasciata turca, di un’ambasciata tripolina ne’ loro pittoreschi vestiti; se ne seppero gli strani gusti, i singolari costumi. Quel bagliore di metalli e di colori, quelle novità di persone e di cose potean riguardarsi come altrettante prove della nuova potenza del nostro paese >>.13
Queste descrizioni di stoffe lussuose e bagliori di metalli preziosi si rispecchiano nei ritratti di questi personaggi, eseguiti da Bonito, in cui i dignitari turchi indossano luccicanti monili, un ampio mantello ed un vistoso turbante con delle piume.
Immaginiamo quanto siano importanti queste raccolte presepiali borboniche, testimonianze della varia umanità che popolava il Regno di Napoli nel Settecento, ma soprattutto fonti a cui attingere per apprendere quali fossero gli abiti e gli usi sia dei regnicoli che degli stranieri che in quegli anni hanno reso omaggio a Napoli.
Nel 1799 Ferdinando IV, consapevole della bellezza e dell ’ importanza delle statuine, in fuga a Palermo le avrebbe portate con sé, ma nel tumulto di quei giorni il grosso della raccolta andò disperso e solo una piccola parte di essa arrivò in Sicilia.
Dopo la restaurazione, Ferdinando cercò di rimettere insieme la sua raccolta e fece in più nuovi acquisti, come 150 figure, numerosi animali e vari accessori. Anche dopo la sua morte, quando gli succederà al trono suo figlio, col nome di Francesco I, il Presepe reale continuerà ad arricchirsi ed essendo ormai morto Francesco Celebrano, il nuovo sovrano incaricò Antonio Celebrano, figlio del defunto pittore, di occuparsi dell’acquisto di altri pastori.
In seguito anche Ferdinando II ebbe una sua raccolta di pastori e ogni anno fece montare nella Reggia di Caserta un grande presepe che veniva esposto ai dignitari di Corte ed al popolo e l’allestimento più noto fu quello del 1844.
Negli anni, tutte le raccolte presepiali borboniche sono state riordinate, inventariate ed in piccola parte restaurate. Molte statuine raffiguranti personaggi del ‘700, conservate a Napoli, nel Museo di San Martino o appartenenti a collezionisti privati, sono talmente curate che attraverso il loro abbigliamento si può risalire con certezza alla provincia del Regno a cui appartengono: l’uso di certi dettagli, come colori, motivi decorativi ed ornamenti precisi, rimanda ad una determinata comunità sociale, linguistica e culturale.
E’ il caso di una statuina, appartenente ad una collezione privata, che raffigura una giovinetta che indossa una gonna azzurra profilata da galloncini d’oro sulla quale è sovrapposto un grembiule in tela finissima bianca, con fiori ricamati tono su tono, un corsetto in broccato14 annodato con lacci e maniche in raso, annodate attraverso nastrini rosa. E’ un costume popolare che s’ispira agli abiti contadineschi, ma che si discosta dallo stereotipo della “pacchiana” ed era indossato dalle donne di Napoli che, influenzate da una moda nata in Francia, erano solite indossare questo tipo di abiti, simili a quelli delle contadine, durante le gite in campagna.
Qualcuno ha interpretato questo “travestimento” come un modo per gli abitanti di Napoli, sia appartenenti al ceto medio che alle classi più elevate, di evadere dai ritmi della città vestendosi come villici ed assaporando la tranquillità di qualche giorno trascorso in campagna. La stessa Famiglia Reale venne ritratta in abiti campestri da Angelica Kauffmann nel 1783 e da J. Philip Hackert nei due bozzetti, “La mietitura” e “La vendemmia”, per gli affreschi del Casino Reale di Carditello nel 1791.
Opere autografe dell’artista, questi due bozzetti raffiguranti due tra le attività agricole più comuni delle classi rurali, la mietitura e la vendemmia appunto, testimoniano l’interesse che Ferdinando IV nutriva nei confronti delle tradizioni popolari e dei costumi del suo Regno.
I coniugi reali Ferdinando e Maria Carolina ed i loro figli indossano infatti abiti da contadini, caratterizzati dai tipici cappelli a falda larga, dai panciotti, dai lunghi veli copricapo e dai grembiuli. Il Re, la moglie e i figli sono ritratti con i costumi di Terra di Lavoro, nel primo dipinto il sovrano, con a lato due cani da caccia e con le braccia incrociate poggiate ad un bastone, rivolge lo sguardo alla consorte che è seduta su covoni di grano. Nel secondo dipinto protagonisti sono solo i figli del Re, ritratti fra un carro-botte e contornati da buoi in libertà e da una pecora, mentre in alto, quasi ad incorniciare la scena, vi sono tralci d ’ uva che si adagiano come festoni tra i rami degli alberi.
Al di là di questi “travestimenti” dei nobili, vi erano ovviamente i veri e propri rustici, che nella vita di tutti i giorni si dedicavano con energia e vitalità alle operazioni di raccolta dei frutti della terra nelle campagne del Regno e che erano immancabili nel Presepe, le cui statuine ce li raffigurano con piedi nudi e capo coperto, vestiti con panciotti in tela con lacci, cinture in pelle con fibbia, pantaloni di panno, giacche e borse in pelle e con un po’ di immaginazione ci sembra di vederli in mezzo ai campi che si scambiano parole scherzosamente oscene ed aggressive ad alta voce, la famosa “alluccata”, consuetudine molto diffusa all’epoca.
Un altro personaggio tipico della città di Napoli e presente nel Presepe è il “Mangiatore di Maccheroni”. Una statuina che ne raffigura uno è conservata nel Museo di San Martino a Napoli e l’artista che l’ha creata si è forse ispirato al “Napolitan mangia Macaroni”, facente parte della “Raccolta di Varii Vestimenti ed Arti del Regno di Napoli” di Fabris.
Questo personaggio, vestito con calzoni e giacca laceri e rattoppati, era conosciuto persino dai viaggiatori, come Joseph Gorani che ne parlò in una sua opera stampata a Parigi nel 1793: << Un uomo del popolo va da un venditore di maccheroni, si fa dare un piatto di legno di pasta ben bollente sulla quale ha aggiunto del formaggio grattugiato, prende i maccheroni con le mani e li attorciglia con un gioco di destrezza che gli stranieri sanno raramente imitare >>15.
A Napoli, e nelle varie province del Regno, c’era poi tutto un mondo di miserabili, diseredati e deformi che è presente anche nel Presepe, soprattutto quello del secondo Settecento, poiché il Bambino Gesù, dalla sua grotta, vede ed accoglie tutti, anche l’umanità derelitta dei deformi, dei malati, degli esclusi.
Personaggi come “Il Guercio”, “Lo Zoppo”, “La Zingara”, “Il Mendicante” sono ben raffigurati nelle statuine e perfettamente inseriti nello scenario del Presepe, può trattarsi di gente comune, di pastori con evidenti anomalie fisiche, di nomadi dediti al commercio ambulante, di nani, ecc.
Nel rappresentare questi soggetti, gli artisti che hanno creato le statuine hanno sicuramente tenuto presente la scuola del naturalismo seicentesco, soprattutto certe opere di Jusepe de Ribera, pittore spagnolo che decise di restare a Napoli tutta la vita, che realizzò diversi ritratti di persone che, per la loro miseria e le loro deformità, (soprav)vivevano ai margini della società.
Per quanto riguarda gli umili pastori, oltre ad esemplari caratterizzati dal classico, ma misero gilet in pelle di pecora, dalla bisaccia e dal bastone, ve n’erano alcuni altri il cui abbigliamento era un po’ più ricco, costituito da pantaloni e giacca in seta operata con disegno quadrettato e bottoni in argento, stoffe realizzate appositamente dai “cositori” nelle fabbriche di San Leucio.
Gli storpi erano invece vestiti solo ed esclusivamente di poveri e sudici stracci e le zingare di camicie in tela bianca, gonne e grembiuli semplicissimi e talvolta scialli in cui avvolgere il loro neonato e tenerlo fra le braccia. Nel creare questi lattanti in miniatura alcuni artisti si sono limitati a testine di terracotta che fuoriescono dalle fasce, altri, più attenti alla cura dei particolari, hanno modellato anche le braccine nude dei neonati, ritraendoli nell’atto del dormire, appoggiati al seno materno, con un tocco di rosa sulle gote e con le piccole labbra dischiuse.
Da sempre Napoli è la città degli estremi, dove ricchezza e miseria sono due facce della stessa medaglia, e anche nel Settecento accadeva che famiglie ricche e blasonate convivessero con quei miserabili descritti poc’anzi. Questa realtà è ben rappresentata nel Presepe, dove accanto al povero troviamo, ad esempio, il “Vecchio borghese” con l ’ abito da festa che svela la sua condizione agiata. Si tratta di una delle statuine realizzate da Giuseppe Gori, considerato da molti studiosi l’erede di Giuseppe Sanmartino.
Questo personaggio indossa giamberga e pantalone in velluto riccio di colore nero su fondo di raso color oro-vecchio, la fodera della giamberga è in seta e lo è anche il gilet, laminato in argento. I pantaloni sono fermati da una cintura in seta operata e la camicia è di lino. Le lunghe calze sono in seta, tenute ferme da un nastrino rosso legato al ginocchio. Il pesante velluto del suo abito, modello tendente alla moda francese, ma indissolubilmente ancora legato allo stile spagnolo, ed i tratti grossolani del viso ci suggeriscono che probabilmente non è nobile di nascita, ma è un “arricchito”, qualcuno che ha migliorato la sua posizione sociale grazie al guadagno, potrebbe essere un commerciante, un bottegaio, un borghese di origini rurali, tutto eccetto un aristocratico.
In questi abiti in miniatura troviamo continuamente riferimenti a quelli dipinti da artisti come D’Anna, Berotti, Santucci, Joli e Fabris, i quali ci hanno lasciato una vera e propria rassegna dei costumi del Regno di Napoli, e perciò constatiamo che nel vestire queste statuine nulla è stato lasciato al caso, chi le ha realizzate si è scrupolosamente documentato osservando i loro disegni e dipinti.
Una di queste fonti d’osservazione fu certamente la “Raccolta di varii Vestimenti ed Arti del Regno di Napoli” di Pietro Fabris, in cui vi sono non solo ritratti di comuni uomini e donne dei vari territori del Regno, ma anche personaggi che svolgono precisi mestieri e che ritroviamo nel Presepe, come i friggitori, i vinai, i servitori, i venditori, i suonatori e i pescatori.
Al modo di vestire di questi ultimi s’ispira appunto l’abito da pescatore che indossa Ferdinando IV di Borbone ritratto, in giovane età, forse negli anni ’70 del XVIII secolo come sostengono alcuni studiosi. Il disegno che lo raffigura, eseguito a matita e acquerello su carta, è conservato presso il Museo di San Martino di Napoli. Abbiamo già detto più volte che il Sovrano mostrava un forte interesse nei confronti del popolo minuto, delle sue tradizioni e dei suoi costumi e disegni come questo lo testimoniano, mostrandoci un re amante non solo di seriosi ritratti ufficiali, ma anche di altri meno impegnativi.
Fa da sfondo a questo ritratto il Vesuvio e alle spalle del re si vedono marinai a lavoro su un’imbarcazione, Ferdinando IV indossa abiti da pescatore, ammodernati rispetto a quelli tradizionali, decorati da un motivo a righe su pantaloni che gli arrivano alla caviglia. Sopra indossa una camiciola con lo stesso motivo dei calzoni, fermata in vita da un’ampia fascia, completano il tutto una giacca, calze, scarpe con una grossa fibbia ai piedi e un berretto in testa. Si tratta ovviamente di un modello più ricco e raffinato di quello tradizionale che prevedeva invece camicia, semplici calzoncini di tela, corpetto rosso privo di maniche e berretto frigio bianco.
I costumi presi in considerazione, da quelli raffigurati dai pittori D’Anna, Santucci e Berotti a quelli confezionati per le statuine del Presepe, passando per quelli del Carnevale, possono essere considerati veri e propri “documenti” di un popolo, quello del Regno di Napoli nel Settecento, che, pur non avendo politicamente voce in capitolo, provava, almeno, a farsi notare attraverso i capi che indossava, tradizionali, ma nello stesso tempo fantasiosi e diversi a seconda dei mestieri, del ceto e delle province di appartenenza.
2.2 Uniformi militari
Per definizione, il termine “uniforme” sta ad indicare un abito uguale per tutti gli appartenenti alla stessa arma, corpo, specialità, categoria gerarchica, ordine, istituto, servizio. Si potrebbe pensare perciò che, a differenza dei costumi popolari e degli abiti di corte, poco fosse concesso alla fantasia di chi, nel Settecento, realizzava questi capi, vista la ripetitività delle loro caratteristiche, e che poco ci s’interessasse ad essi.
Invece i sovrani europei furono attenti a come vestire i loro soldati e fu vanto di molti di loro poter contare su eserciti contraddistinti da splendide uniformi, anche se, nel caso del Regno di Napoli, bisognerà attendere le riforme di John Acton del 1780 perché la realizzazione delle uniformi venisse affidata a manifatture reali permanenti che ne creassero di resistenti ed eleganti.
Non solo il Regno di Napoli , ma ogni altra nazione, ha dovuto attendere la seconda metà del ‘600 e oltre perché il semplice vestiario dei propri soldati avesse dei colori e dei modelli fissi tali da trasformarlo in una vera “uniforme militare”. Nei secoli precedenti, quando veri e propri eserciti non esistevano neppure, ma solo “fanterie nazionali” (che affondano le loro radici nel lontano quindicesimo secolo), i corpi di milizie venivano contrassegnati da “bande” , cioè strisce di tessuto colorato cucite al vestito o legate al braccio, e a Napoli si adoperò la banda rossa, stesso colore degli ispano-imperiali.
Il capitano Cinuzzi ci ha lasciato degli scritti, coevi al periodo in cui svolse la sua carriera militare, sull’abbigliamento dei soldati alla fine del Cinquecento. Egli fu al servizio del duca di Parma Alessandro Farnese, il quale aveva voluto con sé, nelle guerre civili di Francia, anche milizie napoletane. Da questi documenti si evince che i soldati di allora non avevano uniformi, anzi il loro abbigliamento era quasi folcloristico << il soldato vestirà conforme allo stato ed al poter suo ed alla sua usanza [...] con bel cappello, sopravi penne, acciocché vada bizzarro e che paia che habbia sempre gran cose in testa, se è possibil, di colore rosso, come usavano i Romani sì per esser colore allegro, bizzarro e che denota vittoria >>1.
Vediamo ora nei particolari come erano organizzati gli eserciti napoletani molto prima che, con Carlo III, si avesse finalmente la possibilità di costituire un unico Regno con un unico esercito.
Nel ‘600 i viceré disponevano a Napoli di varie compagnie di cavalleria, inclusa una formata da cavalieri greco-albanesi, ciascuna avente una sessantina di uomini. Ogni viceré disponeva inoltre di truppe mercenarie straniere, di un centinaio di nobili cavalieri napoletani aventi il compito di guardie del corpo, di una fanteria e di milizie locali. In genere, le truppe spagnole di Filippo V acquistavano le loro uniformi dalla Francia, nazione che, come più volte avremo modo di sottolineare nei capitoli successivi, dettava legge nel campo della moda.
Inevitabilmente, nel Settecento l’abbigliamento dell’esercito napoletano si ispirava a quello dell’esercito spagnolo, la cui divisa “standard” era formata dalla giamberga, detta anche marsina, giustacuore o casacca, dalla sottoveste, lunga fino sopra il ginocchio e che progressivamente si accorciò, sempre priva di colletto; dalle calze lunghe, dagli stivali in cuoio e dal tricorno nero sul capo.
Diverse cedole di Cassa Militare, dei primi anni del ‘700, rivelano che l’esercito napoletano, prima che si stabilissero gli Austriaci nel Regno, seguiva in tutto e per tutto i dettami ispanico-imperiali.
Una cedola del 1701 descrive, in lingua spagnola, trenta cappotti per sentinelle napoletane << de color amusco (muschio) >>2 , mentre un’altra del 1703 dice che si acquistarono panni di Cerreto di color “misto” (muschio e bianco) per confezionare uniformi della fanteria spagnola; nel 1704 si fabbricarono corpetti e calze verdi per un reggimento a Napoli e furono impiegate 270 canne di tela verde di Caserta; infine, una cedola del 1706 elenca 784 cappelli << nigri della Fragola (Afragola) >>3 in dotazione al locale reggimento di fanteria.
Quando sopraggiunse la dominazione austriaca, Napoli non aveva ancora avuto modo di avere una propria uniforme, sappiamo solo che Filippo V aveva sottolineato, in un diario ufficiale, quanto fosse importante l’uniforme per ogni nazione e per ogni regno, poiché essa aveva anche la funzione di consolidare alleanze ed amicizie, e prescrisse che, in segno d’intesa, << con la divisa rossa, che la nazione spagnola portava nel cappello, si mescolasse la bianca che portavano i francesi >>4.
Fino agli inizi del ‘700, a Napoli la milizia si chiamava “terzo fisso”, consistente in un reggimento suddiviso in una trentina di compagnie di un centinaio di uomini l’una ed era impiegato per presidiare la Capitale, le maggiori piazze del Regno, le marine più esposte ed i Presidi di Toscana al fine di garantire il possesso del Regno alla corona spagnola. In più esistevano una serie di milizie locali, radunate periodicamente, solo in caso di necessità, che vennero abolite da Carlo III nel 1743.
A partire dal 1701, per fronteggiare la minaccia austriaca ai possedimenti spagnoli in Italia, molte truppe affluirono nel napoletano, provenienti da altri possedimenti spagnoli e dalla Francia. Nel 1702, in occasione dell’arrivo di Filippo V a Napoli, venne formato un reggimento di guardie di cavalleria. In totale, la guarnigione militare del Regno di Napoli era formata da : Fanteria, 3302 uomini; Cavalleria, 670 uomini; Dragoni, 715 uomini; altri reggimenti a Capua, Gaeta, nelle isole, in Toscana e in Abruzzo, circa 4000 uomini in tutto.
Nonostante tutto, fino alla seconda metà del Settecento lo spettacolo che si presentava agli occhi di chi osservava le uniformi delle truppe del Regno di Napoli non era piacevole: nel 1701 furono stanziate truppe ispano-napoletane in Catalogna ed essendo il loro vestiario di scarsa qualità, si presentarono lacere, misere e fameliche; non era migliore lo stato in cui versava la Cavalleria in quegli anni, s’indignò persino il sovrano di allora, Filippo V, nel constatare la situazione. Infine abbiamo la testimonianza dell’abate Galiani, ambasciatore del Regno delle due Sicilie per volere di Carlo III, risalente alla seconda metà del Settecento, che descrisse lo stato misero in cui si trovavano le fanterie napoletane nei Presidi di Toscana.
Le vicende storiche del Regno di Napoli, note a tutti, furono caratterizzate dal susseguirsi delle dominazioni straniere, per questo non esisteva un’organizzazione autonoma, né civile, né militare, perfino usi e costumi furono influenzati dai vari dominatori stranieri. Questa particolare situazione intiepidì la tradizione militare delle popolazioni, anche se queste ultime non si tirarono mai indietro e, come poterono, contribuirono con valore alle imprese degli eserciti spagnoli, aiutandoli a vincere.
Fu con l’ascesa al trono di Carlo III che si ebbe un regno (di nuovo) autonomo. Egli fronteggiò la situazione politica appena descritta e, dovendo creare dal nuovo l’esercito del Regno di Napoli, ma non potendo contare su specifiche manifatture locali, fece comunque in modo che le uniformi dei suoi corpi militari non fossero da meno a quelle delle altre monarchie, e fossero ispirate rispettivamente a quelle dell’Austria per quanto riguardava la Fanteria, a quelle della Francia per l’Artiglieria e alla Prussia per la Cavalleria.
Nel XVIII secolo, e oltre, varie furono le raccolte che si occuparono di illustrare le uniformi militari, tra le più antiche testimonianze relative alle uniformi napoletane vi sono quattro acquerelli del 1746 conservati nella raccolta Brown, della Brown University di Providence5, Stati Uniti. Uno di essi raffigura un Caporale di Artiglieria che indossa una giamberga blu, priva di colletto e con paramani rossi, un “ giamberghino “, cioè un panciotto, rosso, calzoni e calze bianchi, scarpe nere con la fibbia dello stesso metallo giallo dei bottoni e il suo copricapo è un tricorno nero, bordato di giallo con una coccarda rossa, colori della dinastia spagnola. Tra le più importanti raccolte che si occuparono di uniformi vi furono quella di De Montigny, stampata a Parigi nel 1772, sulle Uniformi della Casa Reale e dell’esercito francese, quella del colonnello inglese J. Luard, sulla storia delle uniformi dei soldati inglesi, quella di Francesco Biondi sulle uniformi appartenenti all’ultimo periodo del Regno di Ferdinando IV, fino a giungere al 1850 quando, per volere di Ferdinando II, si rinnovarono le uniformi dell’esercito e della marina borbonica e il sovrano chiese ad Antonio Zezon, nobile litografo-editore spagnolo la cui famiglia era al servizio dei Borbone fin da quando Carlo III giunse a Napoli, di realizzare un volume che illustrasse tutte le divise e che glorificasse l’esercito borbonico.
Deduciamo da queste notizie che nei secoli scorsi c’è stato un vivo interesse per l ‘ abbigliamento militare, anche se lo studio delle uniformi inteso come scienza, l ‘ “uniformologia” appunto, si è consolidato nel Novecento, prima in Francia e Germania e poi in Italia.
Tornando alla riorganizzazione dell’esercito effettuata da Carlo III, bisogna ricordare che, quando giunse a Napoli il 10 maggio del 1734, egli portava con sé dalla Spagna 35.000 uomini, circa la metà di quello che doveva essere il suo esercito, poiché a Napoli non c’era un numero sufficiente di uomini: ad occuparsi dell’artiglieria ve n’erano appena 300, con semplici mansioni di addetti alla fonderia di cannoni, addetti ai magazzini delle polveri di Castel dell’Ovo, addetti al laboratorio di munizioni sulla strada di Chiatamone, addetti ai bombardieri delle fortezze e dei presidi costieri.
All’inizio del regno di Carlo III anche l’organizzazione e i regolamenti militari, come il resto dell’ordinamento statale, furono fortemente influenzati dalla Spagna.
Il Re fondò nel 1735 l’Accademia dei Guardia Stendardi, dove si insegnavano discipline quali la navigazione e le scienze matematiche, un vero e proprio Collegio che nel 1752 fu trasferito alla “Nunziatella”. Poi si preoccupò che il nuovo Regno avesse una flotta per difendersi dagli attacchi dei barbareschi e formò un nucleo di quattro galee, tre delle quali acquistate dal Papa Clemente XII e un’altra, “Capitana”, costruita a Napoli. Fu ingrandito l’Arsenale di Napoli e dal 1738 in poi fu iniziata la costruzione di varie feluche.
In quello stesso anno, il sovrano creò l ’ “ Ordine Cavalleresco di San Gennaro “ e cinque anni dopo i dodici “ Reggimenti Provinciali “, ma solo il 25 novembre 1743, tramite le Ordinanze, si decise ad includere ufficialmente i contingenti locali a questi reggimenti spagnoli; infine con un Decreto del 3 dicembre 1745, Re Carlo fece ingrandire il Molo di Napoli. Nel 1749 un’ordinanza, scritta in spagnolo, in quel periodo lingua ufficiale dell’esercito napoletano, prescrisse che il vestiario di un particolare Reggimento, Dragoni del Principe, dovesse essere giallo e nero e che i soldati ad esso appartenenti dovessero avere fucile e sciabola.
Nel 1755 l’esercito napoletano era composto da: Guardia Reale, Fanteria, Cavalleria, Artiglieria e Corpo degli Ingegneri, esercito che si era precedentemente distinto nella Guerra di Successione Austriaca.
A proposito degli austriaci, ricordiamo che alla morte del loro imperatore, Carlo VI, la Spagna aveva deciso di riconquistare i ducati italiani e Carlo III dovette affiancare le sue truppe a quelle inviate dai genitori. Il 12 agosto 1742, la famosa notte della potente scossa di terremoto, si avvicinò al porto una squadra navale inglese, alleata di Vienna, che intimò al Sovrano di ritirare i contingenti altrimenti Napoli sarebbe stata bombardata. Carlo III dovette accettare l’ultimatum perché non aveva una forza navale abbastanza forte da contrastare quella inglese (l’avevamo accennato nel I Capitolo) e fu questa circostanza che in seguito lo spinse a reclutare nuovi reggimenti e intensificare l’attività dei cantieri navali.
Il Museo di San Martino a Napoli conserva diversi acquarelli, risalenti agli anni ’50 del Settecento, che raffigurano le uniformi relative ai vari reparti e che testimoniano come i due battaglioni di ogni reggimento si differenziassero per alcuni dettagli. Le loro uniformi si distinguevano infatti per il diverso colore dei calzoni, il secondo battaglione li aveva dello stesso colore del panciotto, detto “giamberghino”, diminutivo di giamberga, abito che dalla vita in giù si allargava a gonna fino al ginocchio, il cui nome deriva probabilmente dal cognome di un maresciallo francese, Schomberg6.
Le uniformi della Fanteria erano caratterizzate da giamberga, sottoveste con collaretto, paramani, gallone e bottoni e pantaloni, i cui colori variavano, a seconda dei Reggimenti, dal rosso, al blu, al bianco.
Ad esempio, i soldati appartenenti al Reggimento “Re” indossavano giamberga e pantaloni rossi, sottoveste, collaretto e paramani blu, gallone e bottoni gialli. Quelli appartenenti al Reggimento “Fanteria Italiana” avevano invece giamberga e pantaloni bianchi, sottoveste, collaretto e paramani verdi, gallone e bottoni gialli.
Tra le uniformi dei Reggimenti Provinciali vi erano poi colori particolari, ad esempio il Reggimento “Val di Mazzara” era caratterizzato sempre da giamberga e pantaloni rossi, ma sottoveste, collaretto e paramani erano color seppia e bottoni e gallone color oro. Nel Reggimento “Terra di Otranto” gallone e bottoni erano argentati, sottoveste, collaretto e paramani verdi e giamberga e pantaloni rossi.
C’erano ancora “Terra di Lavoro”, in cui giamberga e pantaloni erano blu, sottoveste collaretto e paramani rossi e gallone e bottoni argentati, e “Calabria Ultra”, i cui soldati vestivano giamberga e pantaloni gialli, sottoveste, collaretto e paramani neri e gallone e bottoni color oro.
Nella Cavalleria spiccavano le uniformi degli ufficiali: giamberghe viola con bordo rosso, sottoveste, paramani e collaretto variabili dal rosso, al blu, al verde a seconda dei reggimenti e bottoni e gallone argentati.
I copricapi che caratterizzavano un po’ tutti i corpi erano i classici “tricorni”. Le scarpe erano di pelle, chiuse da grossa fibbia e indossate con calze lunghe color chiaro.
Nel 1759 Carlo III lasciò Napoli per salire al trono di Spagna poiché il suo fratellastro Filippo IV era morto senza eredi. Essendo troppo piccolo Ferdinando IV, il primo ministro Bernardo Tanucci divenne reggente al trono di Napoli. Qualche anno dopo, nel 1765, egli sciolse quei 12 Reggimenti Provinciali che erano stati istituiti da Carlo III, sostituì due nuovi reparti ai tre vecchi reggimenti di Sicilia e creò sei nuovi reggimenti, “Sannio”, “Real Campagna”, “Calabria”, “Puglia”, “Lucania”, “Messapia”, “Siracusa” e “Agrigento”.
Durante il Regno di Ferdinando IV furono apportate modifiche all’organizzazione delle forze armate, a partire dal 1765, anno in cui vi fu una riforma che alleggerì i pesanti ordinamenti spagnoli, le varie forze dell’Esercito furono sinteticamente ripartite in Guardia Reale e Fanteria di Linea. Le “Reali Guardie Italiane” indossavano giamberga e pantaloni blu e sottoveste, paramani e collaretto rossi, le “Reali Guardie Svizzere” viceversa, giamberga rossa e sottoveste blu. Il colore delle uniformi dei vari Reggimenti componenti la Fanteria di Linea variavano dal blu, al rosso, al bianco per quanto riguarda giamberga e pantaloni e dal verde, al rosso al blu per quanto riguarda sottoveste, paramani e collaretti. Nel 1769 la Reale Accademia d’Artiglieria e quella del Corpo degli Ingegneri furono unificate col nome di Reale Accademia Militare.
Venne inoltre istituito un Corpo scelto di Cadetti, chiamato in seguito “Battaglione Real Ferdinando”, il cui Colonnello fu lo stesso Ferdinando IV.
E’ interessante segnalare un ’ ordinanza del 14 settembre 1771 che concedeva ai soldati l’uso di divise estive, calzoni e giamberghino bianchi, semplici, privi di qualsiasi ornamento. La stessa ordinanza prescriveva che i soldati non avessero strappi e che fossero pettinati in modo impeccabile.
Delle raccolte statunitensi presso la Brown University, alle quali si accennava ad inizio paragrafo, fanno parte una serie di disegni, raffiguranti l’esercito napoletano nel 1776, che gli studiosi Brandani, Crociani e Fiorentino hanno visionato negli anni ’70. Essi hanno osservato che in una ventina d’anni i modelli delle uniformi si erano trasformati, ad esempio la giamberga della Fanteria era diventata più corta ed attillata, il colletto rovesciato era stato sostituito da un collettino dritto, il tricorno si era rimpicciolito, così pure il giamberghino e i paramani, l’astuccio che custodiva le cartucce, la giberna, venne appeso ad una bandoliera bianca e infine tutti i materiali in cuoio furono bianchi.
I fucilieri non erano ormai più dotati di sciabola, ma di baionetta posta nell’apposito portabaionetta, alla sinistra del cinturone, mentre il giamberghino si arricchì di una chiusura in ottone modellata come le iniziali del reggimento. La giamberga degli appartenenti alla Cavalleria si caratterizzò per avere dei risvolti sul petto dello stesso colore del reggimento. I colori delle divise non variarono rispetto a quelli del 1755.
Tra queste uniformi risalenti al 1776 ve ne erano alcune particolarissime, come quella dei Fucilieri di Montagna, di derivazione catalana, gialla, con ampio mantello verde e “ciocie”7.
L’ordinanza del 1° maggio 1778 prescrisse che l’uniforme di ogni reggimento, senza eccezioni, dovesse essere dotata di spada e che, nei giorni in cui i reggimenti di Casa Reale avrebbero indossato l’alta uniforme, solo essi avrebbero potuto avere un cinturone del colore della sottoveste e bordato d’oro, mentre tutti gli altri ne avrebbero avuto uno di cuoio bianco lavorato.
Verso gli anni ’80 del Settecento, il Regno di Napoli acquistò una sua autonomia, subendo di meno l’influenza spagnola e rinnovando, grazie alle riforme del 1786 e del 1788 del ministro John Acton, la struttura e le uniformi dell ’ esercito: giamberga blu per la fanteria e celeste (o verde) per le truppe a cavallo, mentre i calzoni furono di pelle giallastra. Anche il taglio andò man mano modificandosi, fino ad arrivare al regolamento dell ’ 8 aprile 1791 che stabiliva che l’uniforme militare dovesse avere falde e paramani più corti.
La riorganizzazione di John Acton si tradusse in un distacco dai sistemi spagnoli, i Reggimenti Valloni furono aboliti, la distribuzione di ufficiali e sottufficiali fu regolarizzata, tutti i servizi amministrativi furono riuniti sotto un’unica Intendenza Generale dell’Esercito e la Fanteria fu divisa in 23 Reggimenti.
Furono realizzate, grazie al contributo del Corpo degli Ingegneri, opere militari e civili: la bonifica di terreni a Miseno, Bacoli, Miliscola e Cuma, lo scolo delle acque del Fusaro, il porto di Brindisi e quello di Baia.
La Fanteria fu equipaggiata secondo il modello prussiano, l’Artiglieria secondo il modello francese e fecero progressi la Fabbrica di armi di Torre Annunziata e le varie ferriere che permisero una migliore fusione dei pezzi. John Acton non trascurò la Marina, che dal 1779 ebbe nuovo sviluppo e si emancipò dall’influenza iberica e fu eliminato, per prima cosa, l’uso di impartire gli ordini a bordo in lingua spagnola.
Si può affermare insomma che, mentre il Tanucci si era interessato poco all’esercito, John Acton, che fu ministro della guerra e in seguito primo ministro, fu protagonista di molte iniziative che ravvivarono la seconda fase del Regno di Ferdinando IV.
L’ordinanza del 1780 regolamentò il vestiario delle Reali Guardie Svizzere, prescrivendo che le giacche fossero rosse, il panciotto e i calzoni blu scuro e le bottoniere poste sui risvolti del petto, le quali variavano di numero a seconda del reggimento. Queste loro uniformi erano inoltre ornate da gigli in argento applicati alle falde della giacca e comprendevano anche ghette bianche, tricorno nero bordato d’argento con coccarda rossa e pompon, fucile, baionetta e daga, una spada corta e larga, con impugnatura di metallo bianco. La stessa ordinanza stabilì inoltre che i maggiori avessero un galloncino in argento intorno ai paramani, i tenenti colonnelli due e i colonnelli tre. I capitani dovevano avere due spalline in argento sulla giacca, i tenenti una sola, portata a destra, e gli alfieri una a sinistra.
Man mano fra il 1782 e il 1783 l’intero esercito uniformò il colore delle divise: la Fanteria indossò giamberghino blu con calzone bianco, i vari reggimenti si distinguevano solo ed esclusivamente per il colore del collaretto e dei paramani. Le uniformi dell’Artiglieria furono grigio ferro con risvolti dei baveri scarlatti. Infine su sei reggimenti di Cavalleria quattro ebbero uniformi celesti e due verdi, tutti però ebbero sottoveste e calzoni di pelle gialla, distinguendosi fra loro solo per il colore dei paramani e per il bottone.
Il francese Pommereul riordinò l’Artiglieria con l’ordinanza dell’11 dicembre 1788 e decise che la nuova uniforme del Corpo dovesse essere giacca, panciotto e calzoni di panno blu scuro, con fodera, colletto, paramani e filettature rosso scarlatto e bottoni gialli. Il tricorno sul capo è bordato di bianco, con coccarda bianca e rossa, ed è ornato da un pennacchio, bianco per il reggimento “ Re “ e rosso per il “ Regina “.
Il Regolamento del 31 ottobre 1789 stabiliva fin nei minimi dettagli come dovessero essere le uniformi dei generali, dei commissari di guerra, degli intendenti, degli ufficiali degli Stati Maggiori delle Piazze e delle Armate, dei medici, degli ufficiali in ritiro e della fanteria.
L ’ alta uniforme degli ufficiali era composta da giacca lunga blu scuro, con falde abbassate, non allacciata, con paramani, collettino dritto e fodera di colore scarlatto, panciotto e calzoni scarlatti, calze bianche e scarpe o stivali neri. Il cappello era decorato con coccarda rossa appuntata da trine e da un bottoncino dorato, come i bottoni dell’uniforme. L’uniforme è completata da un cinturino bianco, spada con impugnatura dorata e dragona, la striscia annodata all’impugnatura, in argento misto a seta scarlatta. Questa uniforme è resa particolare da ricami a filo d’oro: un solo ordine di ricamo apparteneva ai Marescialli di Campo, due ordini contraddistinguevano i Tenenti Generali e i Capitani Generali. Il Brigadiere era caratterizzato da bottoni e ricami in argento, mentre i Commissari di Guerra avevano ricami particolari che decoravano le loro giamberghe blu scuro con colletto, paramani e fodera rossi. Esisteva poi il corpo sanitario, la cui divisa, color grigio ardesia, era caratterizzata dal risvolto del bavero rosso e nero. I sanitari non erano considerati veri e propri ufficiali, infatti le loro uniformi erano sprovviste sia delle spalline sia della dragona della spada e i loro gradi si potevano scorgere solo grazie a piccoli ricami.
Il regolamento del 1789 non trascurò la fanteria, corpo che già nel 1788 era stato diviso in dieci Brigate, ciascuna composta da due reggimenti, a loro volta divisi in tre battaglioni. Le loro uniformi erano composte da giacca blu con colletto e paramani del colore proprio di ciascuna Brigata, panciotto bianco con colletto e bottoni in metallo giallo o bianco a seconda che si trattasse di primo o secondo reggimento di ogni Brigata. Infine calzoni bianchi e ghette nere con bottoncini gialli per tutti, mentre in estate usavano panciotto di tela e pantaloni attillati, detti a “ pampiera “, che fasciavano tutta la gamba, fino a coprire parte della tomaia della scarpa, sostituendo così le ghette. Sul capo si portava il consueto tricorno nero, ornato con orlo di filo bianco e coccarda rossa. Agli angoli del tricorno c’erano fiocchetti di vario colore, ciascuno ad indicare le varie compagnie di fucilieri, mentre un pompon indicava il battaglione d’appartenenza.
I granatieri differivano dai fucilieri solo per il copricapo, di feltro nero a forma cilindrica, decorato sulla parte anteriore da una piastra di metallo giallo con inciso il monogramma reale. Tutti i soldati erano poi forniti di una “tenuta di fatica”, una sorta di spolverino in tela grezza indossato durante i lavori pesanti, completata da un copricapo blu con la fascia inferiore del colore distintivo della compagnia. Gli studiosi Brandani, Crociani e Fiorentino hanno osservato che questo spolverino è riconoscibile persino in un quadro dell ’ Hackert del 1794, ornato da un colletto e una controspallina, ciascuna compagnia ne aveva una del proprio colore8.
Riepilogando possiamo affermare che il regolamento assegnava alla fanteria: il colore distintivo rosso ai due reggimenti “Re” e “Regina”, appartenenti alla 1° Brigata; il colore cremisi ai reggimenti “Real Borbone” e “Real Farnese” della 2° Brigata; il color giallo limone ai reggimenti “Real Napoli” e “Real Palermo” della 3° Brigata; il color verde cocomero ai reggimenti “Real Italiano” e “Real Campagna” della 4° Brigata; il color giallo giunchiglia ai reggimenti “Puglia” e “Lucania” della 5° Brigata; il color verde cupo ai reggimenti “Sannio” e “Messapia” della 6° Brigata; il colore nero ai reggimenti “Calabria” e “Agrigento” della 7° Brigata; il colore celeste ai reggimenti “Siracusa” e “Borgogna” dell ’ 8° Brigata; infine i reggimenti della 9° e 10° Brigata, composti da stranieri, avevano uniformi particolari, blu con panciotto giallo e risvolti del bavero rossi per gli Albanesi e uniformi simili a quelle della fanteria nazionale per tutti gli altri. Precisiamo che di nazionalità albanese erano i militanti nel reggimento “Real Macedone”, esistente fin dal novembre 1737, e che le loro divise si caratterizzavano per il “kolbak”, cappello che sostituiva il consueto tricorno, di pelo a staio rovesciato, con sciarpa rossa terminante a fiocchetto uscente dalla cima e pendente sul lato destro del copricapo stesso. Il popolo napoletano diede a questi soldati il soprannome di “camiciotti” per il loro lungo corpetto, il “giustacuore”9.
Il Regolamento dell ’ 8 aprile 1791 si occupò della Cavalleria, le cui uniformi, già dal 1787, s’ispiravano alla Prussia. La giacca divenne priva di bottoni e chiusa quindi da semplici ganci e aveva colletto e paramani del colore specifico di ogni reggimento. Le falde erano rialzate e foderate di bianco, guarnite da un gallone giallo, bordato di rosso. L’attaccatura delle maniche alla giacca era messa in evidenza da una filettatura del colore specifico di ciascun reggimento, mentre in vita i soldati portavano una fascia scarlatta e sul capo un tricorno nero con coccarda nera, di sicura derivazione prussiana. Sciabola con fodero di pelle nera e giberna, astuccio di cuoio per custodire le cartucce, pure nera. Guanti di pelle giallastra e sabretache, la tasca in panno e cuoio pendente dalla cintura, color scarlatto con cifre reali in oro, “F. Rex”.
Il regolamento del 1791 rese appunto obbligatoria questa uniforme abolendo però la sabretache e variando il colore della coccarda da nero a rosso. In più si prescrisse che, per quanto riguardava la tenuta giornaliera, una camiciola celeste dovesse sostituire la giacca e che il tricorno si dovesse portare inclinandolo sulla ciglia destra. D’inverno la divisa era completata da cappe color chiaro.
I soldati, i carabinieri e i caporali erano armati di carabina e sciabola che i soldati napoletani, pur avendone la fodera di cuoio nero, preferivano portare infilata negli stivaloni.
Vi erano poi sei reggimenti di Cacciatori Volontari che vestivano con giubbetto corto verde, panciotto e calzoni grigio cenere, fascia rossa in vita e caschetto di cuoio nero. Gli ufficiali vestivano invece con una giacca lunga verde, con colletto e paramani di diverso colore a seconda del reggimento, bottoni e spalline in oro, panciotti e calzoni grigio cenere, stivali corti all ‘ “ungherese”.
Gli avvenimenti che seguirono la Rivoluzione Francese mutarono l’organizzazione militare napoletana, la capitale del Regno si trovò coinvolta in pieno e per di più la regina, Maria Carolina, era sorella di Maria Antonietta: nel 1793 seimila soldati combatterono a Tolone contro la Francia, mentre nel 1796, sui campi di Lombardia, quattro reggimenti, “ Re “, “ Regina “, “ Principe “ e “ Napoli “, dimostrarono il loro valore nella prima fase della Campagna d’Italia e proprio gli invernali mantelli chiari di quei soldati, detti “pellegrine”, attirarono l’attenzione di Napoleone, tanto che li chiamò “ diavoli bianchi “. Nel 1798, poco prima della sfortunata Campagna contro i francesi, furono formati alcuni ultimi reparti : i reggimenti dei Volontari Cacciatori di Frontiera, vestiti di una giacchetta corta color bruno, bottoni gialli e colletto e paramani del colore distintivo, panciotto grigio cenere e pantaloni dello stesso colore. Nel 1799 metà della flotta costituente la Marina borbonica fu incendiata su ordine degli Inglesi, che volevano impedire che finisse in mano francese, e le unità superstiti seguirono Ferdinando IV in Sicilia.
L’esercito del Regno di Napoli durò dal 16 febbraio 1806 al 20 maggio 1815, periodo denominato “decennio dei Napoleonidi” in cui l’organizzazione militare fu influenzata dalla Francia, ed in molte occasioni si dimostrò superiore all ’ esercito del Regno Italico, non solo per valore e qualità, ma anche per l’eleganza delle proprie uniformi, considerate fra le più belle d’Europa.
Diversi personaggi si sono interessati alla storia di questo esercito e alle sue uniformi, a questo proposito l’uniformologo francese Forthoffer ci riferisce che durante la Seconda Guerra Mondiale un reparto di Tedeschi, su ordine di una personalità influente del Terzo Reich, forse Goering, prelevò dalla Sezione Militare10 dell ’ Archivio di Stato di Napoli, a Pizzofalcone, luogo in cui fin dal 1787 era stata trasferita la Reale Accademia Militare della Nunziatella, materiale vario riguardante le uniformi del Regno di Napoli.
Il Museo di Capodimonte, il Museo Filangieri e alcune collezioni private conservano inoltre una serie di armi11 usate dai corpi militari del Regno di Napoli nel Settecento, si tratta sia di fucili da caccia di fabbricazione spagnola che recano sull’impugnatura lo stemma in oro di Carlo di Borbone, sia pistole elegantemente incise e niellate in oro a motivi fogliacei, con cassa in radica di noce arricchita da arabeschi, sia spadini di corte, con particolari impugnature a spira, pomo e motivi di foglie e fascie alternate.
E ancora fibbie da cinturone in bronzo con tre gigli coronati a rilievo, fibbie di reggimenti specifici e sciabole militari appartenenti al periodo 1740-1759, fino ad arrivare a spadini e scimitarre risalenti al decennio francese, medaglie e persino una collana in oro, con emblema in oro e smalto e croce centrale in oro, appartenuta all ’ Ordine Cavalleresco di S. Gennaro, istituito da Re Carlo di Borbone il 6 luglio 1738.
2.3 Abiti di corte
La Napoli del Settecento, Capitale del Regno, città dei Re Borbone e soprattutto città neoclassica di Largo di palazzo, della Villa Comunale, della Riviera di Chiaia, era lo scenario ideale per il trionfo dei sontuosi abiti dei suoi aristocratici abitanti, confezionati con stoffe pregiate provenienti dall ’ Oriente e dalla Francia.
Questo trionfo avvenne in un secolo, il XVIII, in cui non solo gli abiti, sia maschili che femminili, ma anche le calzature e le pettinature, subirono decisive trasformazioni rispetto alle epoche precedenti, ne elencheremo alcune e ci accorgeremo che sono state graduali.
Fino agli inizi del ‘700 l’abito non aveva colletto, in seguito venne arricchito da un piccolo collo rigido e acquistò inoltre larghe falde rigide, disposte lateralmente in alcune pieghe e apertevi, con i lembi inferiori riuniti mediante un punto o un bottone.
Il risvolto era piccolo, chiuso dietro ed applicato separatamente, dopo il 1760 divenne poco più largo della manica e le pieghe laterali si rimpicciolirono.
Nel 1780 s’introdusse il gilet, senza maniche e foderato dietro di stoffa leggera. Sempre negli anni ottanta del Settecento comparve la marsina rifinita con un ricamo a finto nastro, una assoluta novità che diventò poi un obbligo alla fine del secolo.
La marsina, o veste, era alla fine del Seicento lunga e dritta, a falde squadrate, ma nel corso del Settecento divenne sempre più aderente al busto e alla vita.
La sottoveste venne accorciata fino alla mezza coscia, ebbe in comune con l’abito le pieghe laterali e non fu più di pelle, ma di panno o stoffa setosa, spesso di raso bianco con ricamo a fiori e guarnizioni dorate o argentate.
Per quanto riguarda il soprabito, dal 1720 in poi si usò il “roquelaure” francese, senza vita e abbastanza ampio. Dalla fine del ‘700 esso andò restringendosi e prese il nome di “paletot”. Durante tutto il XVIII secolo andò di moda la “robe”, unione di veste e busto, ma veniva indossata principalmente in occasioni solenni, mentre in casa e a passeggio si portava la “contouche”. La “robe à la française” o “andrienne” era il costume settecentesco per eccellenza, diffusosi dopo il 1715, ed era l ‘ evoluzione della “robe volant”. Si caratterizzava per il suo ampio pannello dorsale che, senza aderire al busto, si apriva in grandi pieghe dalle spalle fino a terra, formando mantello e strascico. Si chiamò “Andrienne” perché questo era il nome di una commedia francese di Baron in cui l’attrice protagonista, Marie Carton Dancourt, entrò in scena così abbigliata e fece scalpore. Vietato inizialmente nelle cerimonie ufficiali per il suo carattere giudicato informale, s’impose invece dalla seconda metà del Settecento, anche a corte, diventando l’abito di gala preferito dall’aristocrazia. Esso si caratterizzava per la “chinoiserie” , cioè decori orientaleggianti che univano alcuni elementi fantastici ad altri naturalistici.
Verso il 1740 iniziò a non essere più in voga la veste a cerchi, ma rimase lo strascico, reso però più stretto e suddiviso in molte pieghe. Le maniche si fecero più lunghe e senza sbuffi, guarnite di un risvolto, cui poi succedettero i merletti. Verso il 1760 tornò nuovamente di moda il vestito a cerchi, di dimensioni straordinarie: sulle anche era talmente rigonfio che vi si potevano adagiare le braccia. Era di forma ovale, con i lati più larghi, tanto sporgenti sia avanti che dietro, che le dame, per passare da una porta all’altra, dovevano disporsi lateralmente rispetto al varco. Questa “armatura a cerchi”, in ferro o in legno, posta sotto la gonna per tenerla gonfia, nacque in realtà un paio di secoli prima, il “guardinfante” o “verducato”, per proteggere dagli urti le donne incinte.
In un primo tempo, l’apertura sul davanti della gonna rimase, poi venne chiusa e la gonna si tirò su in più punti tramite cordoncini. Infine la vita della veste di sopra, detta “manteau” , si trasformò, facendogli prendere la forma di un giacchetto, detto “caraco”. Sotto quest’ultimo s’indossava un farsettino di stoffa più chiara.
Le stoffe con righe verticali entrarono in uso dal 1770 in poi sia nell’abbigliamento maschile che in quello femminile, si trovavano con una certa frequenza nei figurini di moda dell’ultimo decennio del Settecento, sia nei modelli più sportivi, che in quelli più eleganti. In un secondo momento, con l’ascesa di Napoleone, nell’abito maschile di gala si verificò un ritorno a forme e decorazioni in voga durante l ‘ Ancien Régime: i ricami lungo il collo, le mostre, i paramani, le tasche e i piegoni della marsina, il taglio a falde sfuggenti, i calzoni a culottes (questi ultimi soprattutto nelle vesti cerimoniali e di corte).
Le calzature subirono ugualmente delle trasformazioni, ad esempio lo stivale che si usava per andare a cavallo divenne più spesso, ve n’erano alcuni esemplari di fattura massiccia che vennero chiamati “cannoni”.
Nel ‘700 il piano del tacco della scarpa venne spinto sempre più verso la parte centrale della suola, la punta variò più volte in larghezza e lunghezza. La chiusura consisteva in un’allacciatura a nastri o a fibbie.
La Rivoluzione Francese eliminò queste calzature scomode e introdusse tacco basso e largo. Le scarpine da quel momento furono semplicemente legate mediante due nastri avvolti intorno alla gamba, talvolta fino a raggiungere l’altezza del polpaccio.
Le pettinature nel XVIII secolo erano imponenti, le nobildonne si acconciavano il capo con piume di struzzo, fiori e mussoline. Sul finire del ‘700 si diffuse la moda di indossare cuffie di smisurate dimensioni, come la “dormeuse”. I cappellini indossati dalle signore verso il 1780 erano piccoli e venivano disposti obliquamente sulle gigantesche pettinature. Scomparse queste, essi si portarono di nuovo sulla testa, ma specie dopo il 1790, divennero così piccoli da essere praticamente inutili.
Un ritratto di Maria Carolina d’Austria, consorte di Ferdinando IV, eseguito a matita da Costanzo Angelini intorno al 1790 ed inventariato dalla Società Napoletana di Storia Patria, mette appunto in evidenza la vistosa acconciatura della sovrana e l’uso di valorizzare la già voluminosa cascata di riccioli con un nastro annodato con fiocco e con l’aggiunta di piume1.
Dal volume I dell ‘ opera “Usi e Costumi di Napoli” del De Bourcard apprendiamo che nel ‘700 e nel ‘800 esistevano delle figure femminili specializzate nel sistemare le acconciature delle nobildonne : << che cosa ne sapete voi, belle ed eleganti patrizie che seguite scrupolosamente i capricci della “Dea incostante”, di quel piccolo popolo d’industriose fanciulle che s’occupa dal mattino alla sera di accrescervi grazie [...] se nel cristallo dello specchio nel quale voi v’assicurate dell’effetto che farà tale o tal altra acconciatura le date la vostra sentenza irrevocabile d’un sorriso di compiacenza [...] certo che sareste più indulgenti per quella piega che non così ben s’accorda all’armonia delle belle linee della vostra persona >>2.
Queste figure erano le “modiste”, versione partenopea delle “grisette”3 parigine. Eppure l’autore si raccomanda di non confonderle << l’una non ha più che fare coll’altra di quel c’ha che fare il cielo di Parigi con quello di Napoli [...] La modista in Napoli ha di comune con la grisette di Parigi una parte dell’esistenza dei giorni di lavoro [...] non appena discesa dalla cameretta in cui abita, la modista è introdotta nelle più splendide case, presiede durante l’intera giornata all’abbellimento delle signore, le veste, le adorna >>4.
Nel secolo dei lumi non bastava curare i particolari delle acconciature e degli abiti di corte, l’amore per i dettagli si riscontrava anche nel confezionare un altro capo di lusso, l ‘ “uniforme civile”. La Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze aveva messo in mostra nel 1997 una serie di “abiti storici” di diversa provenienza geografica, tra i quali vi era una livrea cerimoniale, risalente all’ultimo quarto del XVIII secolo, una manifattura dell ‘ Italia meridionale.
Per essere precisi, con il termine “livrea” s’indicava << l’abito degli stipendiati a diretto servizio di una persona >> mentre l ‘ “uniforme civile” era quella dei << funzionari che rivestivano alla corte un ruolo di pubblica autorità >>5. Il capo in questione è una livrea cerimoniale o “di gala”, tipico modello settecentesco in velluto di seta rosso, caratterizzato da sottoveste lunga senza collo né maniche, chiusa da quattordici bottoni; calzoni al ginocchio chiusi con cinque bottoni, su baschina a tre bottoni con taschini anteriori tagliati e laccio posteriore; marsina tagliata alla francese senza collo, con dodici bottoni privi di asole corrispondenti; falde scampanate, maniche dritte e paramani chiusi, a tre bottoni ornamentali; tasche con patte sagomate e tre bottoni; dorso a fianchette, code a doppi piegoni sormontati da bottoni, spacco centrale entro fondi piega. Tutto il completo è listato di gallone dorato, che si dispone anche lungo lo spacco ed entro i doppi piegoni laterali, e – in duplice rango – sui paramani, intorno alle tasche e sulle falde della sottoveste. Un gallone di diversa tipologia è al bordo dei calzoni; la fodera della marsina è in gros di seta bianco.
Alcuni esperti di storia del costume hanno fatto notare quanto questa livrea conservi le fogge tradizionali dell ‘ “abito da parata” del Regno delle Due Sicilie, in ogni caso la sua destinazione è di una certa importanza, infatti l ’ accostamento di rosso e oro e l’impiego del velluto e delle paillettes oro e argento sui bottoni e sul gallone, ne indicherebbe l’uso durante cerimonie in nobili casate, sconosciute fino ad ora perché l’assenza di stemmi gentilizi non ne ha permesso l’identificazione.
La funzione della livrea come abito rappresentativo di una casata o di una dinastia reale è testimoniata dalla cronaca storica6: nel 1734 Gaeta capitolò e Carlo III entrò nella città a cavallo; nel 1738 questa stessa città ebbe l’onore di ospitare il sovrano e Maria Amalia, giovani sposi, organizzando per loro un sontuoso banchetto; in cambio Carlo III concesse a Gaeta il titolo di “Fedelissima” e una livrea, pari a quella della Real Casa. Essa veniva indossata dai servi ed era in panno blu, ornata da trine di seta con i colori misti bianco e amaranto; aveva bottoni d’argento, sui quali c’era in rilievo lo stemma della città, ripetuto anche sul lato sinistro del petto; i calzoni erano corti, sempre in panno blu, e le calze bianche. Il cappello era un bicorno con bordo d’argento e fiocco bianco-rosso e le scarpe in cuoio con fibbia d’argento.
Sarebbe stato bello e, volendo essere pragmatici, utile all’economia se fossero esistiti nel Regno di Napoli dei veri e propri “atelier” in cui avrebbero potuto lavorare disegnatori e sarti per confezionare gli abiti dell’aristocrazia, ma, nonostante alcuni tentativi, questo non si realizzò. I prodotti, realizzati in quello che sarà il setificio di San Leucio, furono sì venduti al pubblico in due botteghe, l’una accanto agli stabilimenti, l’altra a Napoli in Via Sedile di Porto, ma si trattava di tessuti, non di abiti interi. Vediamo come nacque questa idea.
Carlo di Borbone era un estimatore delle stoffe francesi, infatti affidava ad un sarto parigino la realizzazione dei capi del suo guardaroba. Nel 1742 volle che venisse aperta a Napoli una fabbrica di sete, all’altezza di quelle parigine, e decise che fosse ubicata a San Carlo alle Mortelle e che fosse diretta dal francese Trouillieur e dal piemontese Gallan. L ‘ “esperimento” durò poco, ma non svanì l’interesse dei sovrani per la seta, la regina Maria Amalia volle infatti che nel 1757 si stabilisse a Caserta l’allevamento dei bachi da seta, premessa importante per il futuro setificio di San Leucio.
Nel 1778 il Re Ferdinando IV decise di dare avvio alla manifattura serica di San Leucio e incaricò l’architetto Francesco Collecini di trasformare quel sito, che fu chiamato San Leucio dall ’omonimo monte e che proprio suo padre Carlo III aveva acquistato nel 1750 dai principi di Caserta, i Gaetani di Sermoneta, in fabbriche che producessero tessuti.
L’antico casino baronale divenne corpo centrale avanzato di un grande edificio a pianta rettangolare con cortile interno comprendente le stanze per la trattura, la filatura e la tintura della seta. Al secondo piano, lo stesso appartamento reale comunicava con le stanze dei telai. Nell’edificio ampliato, il macchinista fiorentino Paolo Scotti si occupò di istallare la manifattura che funzionava grazie a macchine animate dal rotone piantato in un sotterraneo del fabbricato e spinto da un corso d’acqua proveniente dal Condotto Carolino. Tra il 1783 e il 1787 si sistemarono nel Casino reale del Belvedere la filanda, i filatoi, ed i telai con la supervisione di esperti stranieri; nel 1789 esistevano già circa 70 telai per calze e 30 per stoffe; negli anni novanta del Settecento si iniziò la costruzione di una grande filanda, attivata a braccia, che fu completata nel 1814 e che dal 1822 in poi fu messa in funzione utilizzando l’acqua come forza motrice.
Nonostante esistessero in Terra di Lavoro questi setifici del Real sito di S. Leucio, accennavamo ad inizio paragrafo che i lussuosi abiti degli aristocratici e della Famiglia Reale erano pregiate manifatture non confezionate nel Regno di Napoli, ma all’estero. Lo stesso Galanti (già citato nel paragrafo 2.1) osservava che : << Si fabbricano in Napoli stoffe tanto semplici, quanto in oro ed in argento di gran prezzo [...] tutte queste manifatture non hanno né il lustro, né la bellezza di quelle di Lione [...] non ci mancano i materiali, ma ci mancano le scuole [...] la scuola che si è eretta dal re a S. Leucio fa progressi. I lavori di seta non si debbono riputare di lusso fra di noi, perché la seta è una produzione naturale del nostro suolo, onde quest’arte meritava di esser resa comune in tutte le province [...] quanto porta addosso una persona agiata, tutto o quasi tutto è mercanzia straniera [...] il Re potrebbe forse ottenere la perfezione delle manifatture nazionali, col non fare uso che di esse, e con mostrare disgusto per coloro che vestissero drappi stranieri >>7.
Anche l’architetto Ferdinando Patturelli, sebbene una trentina di anni dopo rispetto al Galanti, nei suoi scritti usò il condizionale riguardo le potenzialità di S. Leucio ammettendo che: << [...] mercè la protezione accordata a questa Colonia e le sue Reali largizioni è giunta l’Arte a gran perfezione; cosicché potremmo non aver bisogno di manifatture straniere >>. Inoltre, in una nota della sua descrizione di San Leucio, egli specifica: << Primachè questa Fabbrica acquistasse tutto il lustro di una completa manifattura, nel 1776 ebbe cominciamento dalla semplice manifattura de’ veli da seta allora molto in uso, che a S.M. Ferdinando piacque introdurre fra noi chiamando espressamente da Torino il Direttore Signor Francesco Bruetti [...] bramando il Monarca medesimo completar la manifattura, ordinò nel 1786 la costruzione di molte fabbriche [...] finalmente nel 1789 S.M. dichiarò Real Colonia siffatto stabilimento >>8.
Lo scopo originario dei setifici di San Leucio era sì quello di realizzare stoffe per abiti, infatti l’Archivio di Stato di Napoli conserva un “libro delle matricole” che raccoglie una serie di fatture di pagamento rilasciate agli acquirenti dei tessuti, dal semplice giardiniere di Corte fino al Re in persona, ma oltre alla produzione di queste stoffe non è che esistessero dei veri e propri atelier, delle sartorie e degli “stilisti” per realizzare i vestiti di corte. Nel XVIII secolo i colori delle stoffe erano sgargianti, esemplari di “andrienne” in cotone stampato a motivi floreali dimostrano che ci s’ispirasse alle cineserie tanto in voga nel ‘700, si fece inoltre strada lo “stile tappezzeria”, in pratica con la stessa stoffa si confezionavano sia abiti che tendaggi, quindi accadeva che le stoffe prodotte nei setifici avessero duplice impiego. In seguito, dall’Unità d’Italia in poi, si produssero invece a San Leucio solo stoffe per arredo d'interni abbandonando definitivamente la produzione di quelle per abiti.
Un ‘ altra iniziativa di Carlo di Borbone fu la Real Fabbrica degli arazzi. Nel 1737 il sovrano invitò a Napoli i maestri dell’Arazzeria medicea e decise che la nuova manifattura napoletana fosse ubicata in uno stabile a San Carlo alle Mortelle. In un primo momento l’officina operò con lentezza per il ridotto numero di persone, poi nel 1757 ci fu una svolta perché il re stipulò un contratto con un arazziere romano, Pietro Duranti, che si diede da fare per sveltirne l’organizzazione e aggiunse un nuovo laboratorio. Purtroppo le officine vennero chiuse durante i moti del 1799.
Ancora a proposito di stoffe, lo studioso Diodato Colonnesi ha tracciato una breve storia del ricamo a Napoli, dal XII secolo, periodo in cui si affermò l’utilizzo della seta in Occidente, importata dall’Oriente, fino al XX secolo. Egli ci riferisce che nei vicoli della città, nel corso dei secoli, si sono avvicendati artigiani di ogni genere, dai “giubbonari” ai “taffettari”, dagli orefici a quelli che si occupavano di confezionare drappi. Nel 1347 la Regina Giovanna I concesse alle categorie artigiane di riunirsi e avere un regolamento per autogovernarsi. Nel Quattrocento e nel Cinquecento il ricamo e l’arte del tessuto in seta ebbero un certo impulso, dimostrato dalle coeve polizze di pagamento dei banchi napoletani citate dallo stesso Colonnesi, e anche nel Seicento numerosi furono i ricamatori che si distinsero per la loro abilità.
Nel Settecento, secolo di raffinata eleganza, sia nei conventi che nelle case dei nobili ci si indebitava pur di non sfigurare << i tessuti in seta, i ricami in oro ed argento addobbarono le stanze del patriziato locale e furono composte intere parures di paramenti sacri [...] l’importanza e il costo di lavorazione dei materiali era notevolmente alto per cui le stoffe comparivano nei lasciti testamentari insieme con i quadri, gli argenti, i mobili e i gioielli >>9. Questa digressione ci è servita a constatare quanta attività ci fosse sempre stata nel campo tessile a Napoli e a ribadire il fatto che, ciò nonostante, non siano mai esistite vere e proprie sartorie che, in situ, potessero confezionare gli abiti dei cortigiani e della famiglia reale nel Regno di Napoli.
A questo aggiungiamo che, al pari di altre corti, anche quella napoletana s ’ ispirava alla moda francese poiché, mentre nel corso del Cinquecento e, in parte, del Seicento tutta la moda occidentale era stata dominata dalla Spagna, nel Settecento fu invece la corte di Versailles a essere il punto di riferimento della migliore aristocrazia europea. Una importante caratteristica del Settecento è questa: poiché man mano cominciarono a diffondersi in tutta Europa le riviste di moda, il gusto francese di quel secolo cominciò a influenzare il costume di più strati sociali, anche di quelli che fino a quel momento erano rimasti esclusi dai problemi dell’abbigliamento. Già verso la fine del Seicento giornali e almanacchi avevano pubblicato figurini di abiti, ma le riviste di moda vere e proprie si affermarono nella seconda metà del Settecento. La studiosa Silvana Musella Guida scrive che il processo di omologazione che, nel campo dell’abbigliamento, investì l’Europa intera fu incrementato dalla << molteplicità delle informazioni, spesso casuale, provenienti direttamente dagli ambasciatori nei paesi stranieri e la consuetudine di inviare bambole di moda >>10.
E ancora ci riferisce che, cosa risaputa, le corti italiane presero molti spunti dalla moda francese, fra questi, l’abitudine di indossare l ’ “andrienne”, la tipica veste settecentesca di cui avevamo già ampiamente parlato ad inizio paragrafo, indossata, tra le prime in Italia, da Carlotta Agale d ’ Orléans, duchessa di Modena. Anche la “redingote” fu presa in prestito dal repertorio di abiti francesi, anche se sembra che l’origine di questo capo fosse inglese, era una giacca lunga fino al ginocchio che la studiosa Musella Guida ci segnala essere stata raffigurata anche sulle statuine di porcellana di Capodimonte << [la redingote] fu ampiamente impiegata a Napoli, proprio come dimostrano le statuine in porcellana di Capodimonte, assieme al “frac” , pure questo di origine inglese >>11.
Un’altra caratteristica dell ‘ abbigliamento delle aristocratiche dame napoletane nel Settecento era la consuetudine di concedersi audaci trasparenze in seta, poi cadute definitivamente in disuso nel secolo successivo, che venivano considerate dai benpensanti fin troppo licenziose.
Fonti iconografiche di riferimento per osservare gli abiti della Corte sono certamente i ritratti, eseguiti da artisti come Liani e Bonito, dei nobili e dei reali di Napoli.
Francesco Liani ha realizzato nel 1770 una coppia di ritratti, Ferdinando IV e la sua consorte Maria Carolina d ’ Austria, che in realtà sono parte di tutta una serie di dipinti, realizzati da vari pittori, che fermarono su tela i momenti più rappresentativi della vita di Carlo III e di Ferdinando IV, da quando erano ancora dei giovani principi fino a quando divennero sovrani.
Questi ritratti, che nel Settecento avevano lo scopo di affermare e divulgare l’immagine dei sovrani nei territori del Regno, oggi hanno valore di testimonianza del passato e di fonte documentaria per analizzare l ’abbigliamento del ceto sociale più elevato tra le classi del Regno.
Ferdinando IV indossa un’elegante giamberga in tessuto vellutato con ampi paramani riccamente ricamati con motivi di fogliame in oro che si ripetono anche lungo i lembi inferiori della giacca fino a salire a metà soprabito, intorno alle tasche, per poi proseguire lungo il bordo della giacca, accanto alle asole, ed intorno al collo.
Dai paramani spuntano fuori le maniche merlettate della camicia, un lembo della cui stoffa, leggerissima, fuoriesce anche dall’apertura della giacca sul davanti, quasi come se fosse un foulard. Decora la giamberga una fascia in seta, costante nell’abbigliamento dei nobili, dei reali e dei personaggi che rivestivano importanti cariche politiche e militari.
La regina Maria Carolina indossa un’ampia e sontuosa veste caratterizzata da un corpetto damascato che decora il davanti del suo abito, mettendo in evidenza il décolleté “incorniciato”, nella parte inferiore, dal bordo del corpetto e, nella parte superiore, da un nastro, vellutato, che cinge il collo e che è impreziosito da un pendente, la cui forma richiama gli orecchini. L’abito, con maniche rigonfie e merlettate, lascia scoperte le spalle e si arricchisce, dalla vita in giù, di un altro strato che, come un manto più pesante, rende più grandi le dimensioni della gonna e contrasta con l’impalpabilità della stoffa dell’abito che si rivela sotto di esso. I capelli della Regina sono raccolti sulla testa e tenuti fermi da piccoli e preziosi fermagli-gioiello dalla forma di fiore, un’acconciatura, a parer mio, molto più discreta e raffinata di tante altre che prevedevano cuffie smisurate, piume e altri ornamenti stravaganti. Un esempio di queste acconciature è raffigurato in un ritratto della stessa Maria Carolina col piccolo Francesco, erede al trono di Ferdinando, in cui la Regina impreziosisce la sua cascata di boccoli con una specie di cuffia in seta, a forma di cono rovesciato, ornata da merletto nella parte inferiore e da due grandi piume sulla punta e in più arricchita lateralmente da cinque fiori con lunghi steli. Il suo abito è più sobrio di quello indossato nel suo ritratto che abbiamo descritto precedentemente, forse perché ormai Maria Carolina è madre, ha abbandonato vezzose scollature e merletti che si addicono di più ad una principessina e ha preferito farsi ritrarre con un vestito accollato, che copre interamente anche le braccia fino ai polsi e che, grazie all’ampiezza della gonna, funge da base su cui la Regina adagia il neonato Francesco, coperto da una vestina bianca riccamente merlettata sul davanti e intorno alle maniche.
Il principe ereditario Francesco fu ritratto in seguito, ormai fanciullo, da Elisabetta Vigée Lebrun con indosso una camicia pieghettata dall ‘ enorme collo tondo, di stoffa velata e ricamata, che fuoriesce dalla piccola giacca decorata con due spille-stemma della Casa Reale. Viene spontaneo paragonare questo ritratto ad un altro, quello di Ferdinando IV, più o meno coetaneo di Francesco, eseguito da Anton Raphael Mengs. Ferdinando, che aveva all’epoca nove anni, indossa una giamberga di velluto blu con ampi paramani rovesciati assicurati alle maniche da due grossi bottoni, sempre di velluto blu, uguali a quelli sul davanti. Sulla sinistra è appuntata una grande spilla-gioiello, raffigurante una croce impreziosita da una miriade di gemme.
Sotto la giamberga il principino indossa la sottoveste in raso ramato con spacco sul davanti e falde decorate da ampi ricami floreali.
Intorno alla vita, sovrapposta alla sottoveste, una fascia bianca in seta drappeggiata rende l’abito ancora più regale ed “autorevole”, mentre una fascia di seta rossa attraversa in diagonale la sottoveste. I calzoni sono dello stesso velluto blu della giamberga, arrivano appena sotto il ginocchio e lì sono decorati da tre bottoni disposti verticalmente e una fibbia argentea. Le calze sono lunghe, in seta bianca dai riflessi argentei. Dai paramani della giacca s’intravede il particolare prezioso delle maniche merlettate della sottoveste. Alle spalle del giovanissimo Ferdinando, adagiato sul pavimento marmoreo della stanza, c’è un manto reale, rosso porpora con bordo di pelliccia bianca, quasi a ricordarci il suo futuro ruolo di Re di Napoli. Come è diversa questa immagine “ufficiale” di Ferdinando IV bambino da quella che popolava l’immaginario collettivo di un Ferdinando “scugnizzo” che, al pari del protagonista de “Il principe e il povero”, di Mark Twain, si racconta indossasse poveri stracci e s’introducesse nei vicoli popolari.
I due ritratti, raffiguranti padre e figlio alla stessa età, ma ovviamente in epoche diverse, evidenziano i cambiamenti che vi furono nella foggia degli abiti; la giamberga del giovane Francesco I è più corta e le maniche sono piccole, aderiscono ai polsi e sono decorate da due bottoni della stessa stoffa vellutata della giacca, nulla a che vedere con gli enormi paramani dell’abito di Ferdinando. Anche le spille-gioiello e la fascia diagonale sono, nel ritratto del principe ereditario Francesco, di dimensioni ridotte.
Ancora di Francesco Liani sono due ritratti di Ferdinando e Maria Carolina a cavallo dei loro rispettivi destrieri, dalle chiome ornate di nastro per l’occasione e dalle gualdrappe vellutate e ricamate in oro.
Il Re indossa una giamberga blu scuro con bottoni dorati e con fodera, collarino e polsini rossi. Blu scuro sono anche i calzoni fermati al ginocchio da fibbia dorata e cinque bottoni disposti verticalmente. Le lunghe calze bianche spuntano dagli alti stivali in pelle, chiusi da stringhe. In testa il classico tricorno nero con bordo di stoffa dorata e coccarda rossa. Maria Carolina ha un abito simile, seppure in versione femminile, composto da lunga giacca, gilet e gonna blu scuro, in una stoffa che a vedersi sembrerebbe raso, guanti bianchi, stivali alti e, sul capo, tricorno nero bordato di piccole piume bianche.
La possibilità di osservare Ferdinando IV e la sua famiglia in abiti, diciamo, borghesi ci è data in un dipinto di Angelica Kauffmann dall’ambientazione esterna, quasi si trattasse di una foto scattata ai sovrani in un pomeriggio in cui essi, lontani dagli impegni ufficiali, desiderano trascorrere il tempo serenamente, a contatto con la natura e circondati dai loro sei figli.
Il Re è al centro della composizione e indossa gilet, con doppia fila di bottoni, e calzoni, questi ultimi fermati al ginocchio da cinque bottoni disposti verticalmente e da una fibbia, entrambi color cammello; il soprabito è una giacca dalle lunghe falde, marrone, con paramani, non molto larghi, dai quali sporgono le maniche bianche della camicia indossata sotto il gilet. Le sue lunghe calze sono bianche e le scarpe, di pelle nera, hanno una grossa fibbia metallica di chiusura.
Alla destra del sovrano vi sono una delle due dame di compagnia e uno dei quattro figli presenti nel dipinto; la fanciulla, che è ritratta mentre suona un’arpa, indossa un abito lungo, la cui stoffa leggera, color cremisi, pare velata; il vestito è ingentilito da un corpetto beige, lievemente merlettato, il cui motivo orna, all’altezza del gomito, anche le maniche rigonfie; sovrapposto alla veste vi è un grembiule, anche esso beige, che suggerisce il ruolo della giovinetta, cioè semplice dama di compagnia.
Nel Settecento gli abiti dei bambini non erano altro che delle riproduzioni in miniatura di quelli degli adulti. In questo dipinto ciò è vero per la principessina, che è accanto alla Regina e che praticamente indossa una versione rimpicciolita del suo abito, solo più corto, ma non può dirsi lo stesso del principino. Egli è accanto alla dama di compagnia e accarezza un levriero e il suo abbigliamento non ripropone quello degli adulti, anzi, la camiciola e i calzoni, lunghi fino alla caviglia e fermati in vita da una fascia, lo fanno assomigliare quasi ad un paggetto di corte.
Un vestito quasi identico è indossato dall’altro principino, alla sinistra del sovrano, seduto su un alto cuscino di velluto rosso posto ai piedi della seconda dama di compagnia, che è vestita e pettinata in modo identico all’altra e che, sul suo grembo, tiene il più piccolo dei figli della regale coppia.
Dipinti, stampe ed acquarelli, molti dei quali conservati nel Museo di S. Martino, sono documenti preziosi per osservare l’abbigliamento settecentesco nobiliare, dai Reali, come Ferdinando IV in uniforme di Colonnello di Cavalleria del Reggimento “Re”, alle personalità della politica, come il Marchese Tanucci ritratto da un ignoto artista, dagli aristocratici cavalieri alle personalità della scena militare, come l’inglese John Acton, ritratto, in un’incisione di F. Bartolozzi, in uniforme di Tenente Generale dei Reali Eserciti con fascia e placca del R. Ordine di S. Gennaro.
In conclusione diciamo che gli abiti della Corte del Regno di Napoli nel Settecento rispecchiano il prestigio della dinastia borbonica, anche se, per mancanza di pregiate materie prime, atelier e disegnatori napoletani sul posto, risultarono fortemente influenzati dalla moda francese e privi quindi di caratteristiche che li distinguessero da quei modelli indossati un po’ in tutte le regge europee.
Capitolo III
Profilo socio-antropologico della società del tempo
attraverso l’analisi dei costumi
Credo che i “monzù”, nomignolo col quale i napoletani chiamavano ironicamente non solo i cuochi al servizio della Corte, ma anche i forestieri che visitavano la città e che può essere considerato la traduzione partenopea del termine francese “monsieur”, visitassero la Capitale del Regno nel Settecento con lo stesso spirito di un bambino che si aggira in un mondo fantastico, dalle pendici del Vesuvio fino a scendere verso il mare, attraversando una miriade di vicoli, piazze e quartieri brulicanti di gente.
L’attenzione di questi visitatori, gentiluomini europei, sarà stata certamente rapita dall ‘ eterogeneità delle persone che si osservavano a passeggio per le strade della città: adulti e bambini vestiti di poveri stracci si contrapponevano ad altri riccamente abbigliati, gli abiti delle dame, confezionati con sete preziose, e le uniformi scintillanti contrastavano con le pezze dei mendicanti, alle veloci carrozze dei nobili, che sfrecciavano tra la folla rischiando d’investire qualcuno, si opponevano i lenti carretti trainati dagli asini.
Nei pressi del Golfo c’erano i luciani fieri dei loro vassoi colmi di pesce, mentre nel ventre della città c’era la gente dei vicoli, vestita di “mantesini”, casacche e camicioni laceri, che baciava i santi tabernacoli, i quali furono << il primo esperimento d’illuminazione delle strade >> suggerito, durante il regno di Carlo III, da Padre Rocco e << ben presto tutti gareggiarono per procurare l’olio alle lampade poste davanti alle sacre immagini >>1.
Se questi forestieri avessero dovuto tracciare un profilo della società napoletana settecentesca basandosi sull’analisi degli abiti osservati sul momento, avrebbero sicuramente affermato che essa era diversa da qualsiasi altra al mondo, perché a Napoli non si assisteva ad una separazione netta fra ricchi e poveri, potenti e miserabili passeggiavano invece tutti insieme e condividevano le stesse abitudini persino a tavola, ne era un esempio la presenza della “minestra maritata”2 sia sulle tavole della gente del popolo che su quelle della Corte.
Il Museo di San Martino conserva un quadro di Fabris, “Festa di Posillipo”, che è la prova di tutto ciò: in esso l’aristocrazia vestita con gli abiti più lussuosi condivide con il popolo vestito con poco gli stessi spazi e la stessa spensieratezza. In uno dei suoi saggi, la studiosa Maria Cristina Masdea non a caso ha definito le scene di Fabris : << specchio di un mondo senza lotte di classe [...] le immagini dei costumi ci rimandano una realtà in cui alcuni dati concreti sono descritti con precisione, ma all’interno di una visione generale, da Arcadia felice, che escludeva quanto non fosse gradito alle raffinate sensibilità dei destinatari di quelle immagini >>3.
Avevamo infatti accennato nel Capitolo II che se si volessero trovare nei disegni di D’Anna, Santucci e Berotti, nei dipinti di Fabris e nei paesaggi di Hackert tracce di quei problemi sociali che affliggevano il Regno di Napoli nel Settecento, non ne troveremmo, perché questi artisti hanno rappresentato persone che, solo apparentemente purtroppo, vivevano sereni in una terra da sogno.
I problemi che affliggevano la società del Regno erano invece tangibili, erano conseguenza di molteplici fattori, primo fra tutti il fatto che nei secoli non era mai esistita un’organizzazione autonoma, né civile né militare, di questo territorio perché tanti, e provenienti da diverse nazioni, sono stati i dominatori che si sono avvicendati e questo aveva impedito alle popolazioni del Reame di avere dei punti di riferimento; mancò loro una coscienza nazionale, esse non facevano in tempo ad adattarsi ad una situazione storica che subito se ne presentava un’altra.
Questa “promiscuità” socioculturale ebbe i suoi lati positivi, arricchendo di consuetudini e tradizioni il vivere quotidiano e rendendo più originale l’abbigliamento delle persone. Lo studioso Cirillo Mastrocinque ha in proposito osservato: << [...] lo storico del costume si orienta a fatica [...] le cause che rendono il costume popolare napoletano così confuso, vario ed indecifrabile sono molte. Innanzitutto la varietà della composizione etnica, la presenza continua degli stranieri e la facilità ad assorbire le loro usanze da parte della popolazione >>.4
Purtroppo anche nei periodi in cui non vi furono scossoni, e alla guida del paese rimasero gli stessi governanti per alcuni decenni, furono comunque commessi errori nella gestione delle ricchezze, non si seppero incentivare le attività che, in qualche modo, erano già avviate e quindi, dal punto di vista economico, non tutti i territori del Regno fecero progressi.
Uno dei tanti esempi di quanto appena detto è quello che avvenne negli anni del Regno di Ferdinando IV: nel decennio 1770-1780 si assistette ad uno spreco di risorse e di denaro che invece si sarebbero dovuti impiegare in alcune località del Reame, come la Calabria e la Puglia, in quest’ultima provincia in particolare si sarebbero dovuti riorganizzare i porti che, privi di efficienza, versavano in pessime condizioni.
Nonostante tutto, le varie classi sociali, ciascuna a seconda delle proprie possibilità, non si demoralizzavano e non rinunciavano ad un vestiario che degnamente le potesse rappresentare. Dalla borghesia alle classi rurali, dal paese più piccolo e sperduto alla città, ciascuno ci teneva a vantare un proprio costume e, visto che la società napoletana era composta da differenti tipologie di personaggi, spesso erano proprio gli indumenti a renderli riconoscibili.
Varia è l’aggettivo che meglio qualifica la società napoletana del tempo anche perché varie erano le sue credenze e tradizioni, c’erano ad esempio donne che sugli abiti preferivano indossare monili specifici, come corallo rosso e ori di bassa caratura, che loro ritenevano essere capaci di assorbire gli influssi malefici a contatto col calore del corpo; altre che continuavano ad adottare e tramandare un vestiario esistente da molti secoli, come le donne di Procida, il cui abbigliamento di matrice greca attirò quegli artisti e quei letterati europei che nel Settecento visitavano Il Regno di Napoli in cerca di qualsiasi segno lasciato dalla Civiltà Classica.
La società del tempo tradiva i suoi influssi multietnici anche nella terminologia usata per definire i capi d’abbigliamento, facciamo alcuni esempi: “gonnella” era presente nei documenti napoletani fin dal XV secolo ed era sinonimo di veste femminile; “camisas moriscas” era il termine con cui nel sud della Spagna si chiamavano quelle stesse camice usate nell’Italia meridionale nel Settecento; “scollatura gallica” definiva un corpetto che mettesse in mostra le forme secondo la moda francese, mentre in seguito con “l ’ accollatura iberica” gli Spagnoli imposero alle napoletane che quelle stesse forme venissero coperte con l’applicazione di crespi di seta alle scollature; la “zimarra”, versione italiana della “ropa”, era il nome del soprabito aperto sul davanti, lungo quasi fino alla caviglia, con le maniche strette, i bottoni e le rifiniture in filo d’oro. Esso era un capo di origine orientale appunto, per la precisione stile ottomano, il che s’intuirebbe già solo ammirando la stoffa lussuosa di questo soprabito, raso rosso o verde, con delle tipiche cocciole d’oro che cominciavano dalle estremità e, percorrendo il collo, si distribuivano lungo le spalle; il termine “manyossa”, in italiano “magnosa”, copricapo femminile geometrico e rigido, era di origine aragonese; la voce napoletana “scioccaglie” (col richiamo a ’fiocco‘) è la variante di “cioccàglio”, dallo spagnolo “chocallo”, cioè orecchino; il “toccato” era invece un fazzoletto in seta che teneva ferma sulla testa una cuffia, anch’essa in seta, e il suo nome deriva dalla “toca” usata in Spagna e ivi importata dagli Arabi.
A proposito di questi ultimi, alcuni studiosi hanno affermato che, fin dal periodo in cui la Spagna venne a contatto con la civiltà musulmana, i Castigliani provarono un forte interesse nei confronti del loro abbigliamento lussuoso, del loro stile esotico e quindi presto si diffuse in terra iberica una vera e propria “maurofilia”, importata poi nel Regno di Napoli.
Oltre alla varietà, un’altra caratteristica della società regnicola, che viene fuori dall’analisi dei costumi delle popolazioni che la componevano, è la sua dignità. Osservando gli uomini e le donne ritratti in costume dai vari D’Anna, Santucci, Berotti, Della Gatta e Fabris ci si fa l’idea di un popolo che pur non essendo muto e mansueto, non era neppure eccessivamente sboccato, chiassoso e rivoltoso come veniva troppo spesso dipinto. Si trattava invece di persone che, al di là della classe sociale a cui appartenevano, erano capaci di agire e di decidere, ma forse i tempi non erano maturi perché venisse fuori tutto questo indagando sotto il profilo socio-antropologico quella società.
Quelle immagini dignitose dei tanti popolani e borghesi, che erano stati rappresentati con gli abiti tipici dei loro paesi, si diffusero, anche all’estero, grazie al fatto che furono vendute e, cosa più importante, circolarono a Corte poiché furono riprodotte su raffinatissimi servizi di piatti, su zuccheriere, su caffettiere, su coppe, su servizi da scrittoio, ecc.., in porcellana di Capodimonte, preziosi veicoli che permisero a quegli umili abitanti del Regno di “entrare” a Corte, di accedere addirittura alle stanze del Re, anche se non di persona, di dimostrargli che fuori della sua lussuosa Reggia esisteva tutto un popolo da scoprire, sparso sia nei territori più prossimi alla Capitale che in quelli tagliati fuori dalle vie di comunicazione con essa.
Parlavamo della dignità di queste persone, credo che le immagini dei loro costumi contribuiscano a restituire loro quel decoro che gran parte della vecchia storiografia gli aveva tolto, dipingendoli come persone divise in fazioni per colpa dei Baroni, pigre, intiepidite nel valore militare, addirittura abituate ad una vita nomade e randagia, e contribuiscano a smentire quella parte di storiografia che affermava che anche i visitatori stranieri avessero le stesse impressioni e considerassero questa gente, specie quella che popolava i territori più impervi, quasi inselvatichita dall’ambiente circostante.
In effetti fino a quando non si sono approfonditi gli studi di antropologia ed etnografia e non si sono analizzati tutti gli aspetti, positivi o negativi che fossero, caratterizzanti la società nel Settecento, molti studiosi ne hanno tracciato un profilo negativo un po’ in tutte le nazioni. La plebe, chiamata così con una punta di disprezzo, veniva descritta come una massa inconsapevole di sé, preda delle superstizioni perché ignorante e contrapposta ad un’aristocrazia ovviamente troppo presa dai propri lussi per accorgersi di essa, ma lo studio delle sue tradizioni, compreso il suo abbigliamento, la riscatta.
In Italia gli studiosi che si sono dedicati ad approfondire lo studio delle tradizioni popolari di tutte le regioni hanno compreso che, nell’ambito specifico del costume e del gusto, è proprio il Settecento il secolo in cui vi furono i mutamenti, in positivo, più evidenti, ed in particolare la Napoli di quel periodo fu un crogiolo di arte, cultura e iniziative di ogni genere.
Questi percorsi di ricerca che miravano a tracciare un profilo socio-antropologico della società del tempo, attraverso lo studio degli abiti e delle tradizioni, si consolidò nell’Ottocento. La studiosa Elisa Miranda, in un saggio riguardante i costumi di due province del Regno di Napoli, Terra di Bari e Terra d’Otranto, ha scritto << Che il costume costituisse un campo semantico privilegiato attraverso cui indagare le condizioni di un regno e lo stato della sua popolazione, fu chiaro anche ai tecnici che lavorarono alla preparazione dei questionari da distribuire ai redattori della ‘statistica’ del Regno di Napoli nel 1811 >>5 ‘statistica’ dalla quale emerse, attraverso l’indagine sugli abiti della popolazione appunto, il tenore di vita, le abitudini e le tradizioni di quella gente in quelle particolari aree geografiche. Dai documenti si evinsero le loro abitudini, si scattò loro una fotografia scoprendo che si trattava di modeste comunità rurali che potevano disporre semplicemente di lana, cotone e lino, che effettuavano il cambio della biancheria ogni quindici giorni e quello degli abiti due volte l’anno, che alle donne spettava la lavorazione delle stoffe e che c’erano delle mense vescovili che procuravano abiti ai più poveri. Gli studiosi risalirono persino alle condizioni di salute di quelle persone, mettendo in evidenza il fatto che, d’estate, a causa di un abbigliamento sbagliato, diventavano più cagionevoli: << Nell ’ està dimettono la casacca, i calzoni e le calze per lo più e vestono d’abiti più leggieri, ma quasi sempre travagliano colla semplice camicia e sottocalzone, vestitura troppo debole e che suole cagionare dell’alterazione nel traspirabile, massimamente quando colle stesse vesti si coricano nelle notti fresche e di diversa temperatura >>6.
A queste osservazioni dei redattori statistici del 1811, che provano quanto sia stato utile lo studio e l’analisi dei costumi per capire la società del Regno di Napoli in quel determinato periodo storico, ne affianchiamo altre sempre tratte dal saggio della Miranda: << Viene considerata come non molto salubre la forma di vestire delle donne perché non portano ben guardate le cosce e parte del busto, permettendogli libero lo accesso alle impressioni dell’aria ed alla diversa temperatura >>7.
Inoltre vengono evidenziate le diverse abitudini della popolazione a seconda delle zone di residenza: << La nettezza della biancheria e degli abiti per ambi i sessi corrisponde al maggior o minor comodo, ed alla decenza e proprietà de’ luoghi poiché le città che sono più civilizzate hanno ne’ loro abitanti maggior politezza, lo che non si vede nelle terre e casali >>8.
Più in generale possiamo affermare che le forme di abbigliamento dei diversi popoli, legati ai differenti stadi di sviluppo delle società umane, sono determinate dalle cause più varie, quali, oltre il clima, i particolari momenti storici, il grado di civiltà, le regole morali, il senso estetico; e sono inoltre influenzate dall’organizzazione politica, dalle strutture economiche, dalle manifestazioni artistiche.
Senza però allontanarci troppo dal periodo storico trattato in questa tesi, diciamo che, nel tentativo di tracciare un profilo socio-antropologico della società del Regno di Napoli nel XVIII secolo attraverso l’analisi dei costumi, è stato necessario “affacciarci” per un attimo alla soglia del XIX secolo per capire che quel modo d’indagare la società, che caratterizzerà l’Ottocento, pose le basi nel Settecento (del resto la stessa “missione” che nel 1783 fu affidata ai pittori D’Anna e Della Gatta, al quale poi subentrò Berotti, da Ferdinando IV è già una “campagna ricognitiva”, una specie d’inchiesta, come più volte abbiamo sottolineato nel Capitolo II).
E sempre in tema con quanto appena detto Giuseppe Galasso ha affermato che, appunto nel ‘700, la cultura cominciò ad essere concepita << non come studio accademico, non come roccaforte della dottrina distante dal volgo profano, ma anzi profondamente sposata alla realtà della vita e profondamente partecipe alla vita degli uomini >>9 confermando il fatto che proprio in quel secolo ci si sentì quasi in dovere di approfondire la conoscenza della società partendo dal basso, dallo studio della quotidianità, delle tradizioni e dei costumi.
Nel caso specifico di Napoli, solo dal regno di Carlo III in poi la città acquistò la dignità di un’importante Capitale e, cessando di vivere ai margini di un grande impero, quello spagnolo, come aveva fatto per circa due secoli e mezzo, raggiunse la stabilità necessaria perché vari studiosi meridionali, primi fra tutti quelli di scienze sociali, indagassero con precisione i vari aspetti della società del tempo, non più questioni astratte o di marginale importanza, ma fatti che coinvolgevano i territori del più vasto regno d’Italia e che era naturale analizzare. Si formò man mano una classe di esperti che si occupassero di problemi economici e di governo, che avviassero delle riforme, che si dedicassero all’impegno civile e alla conoscenza della società, delle persone nella loro quotidianità.
Ad esempio, anche il modo in cui le persone festeggiavano e gli abiti che indossavano durante le principali ricorrenze ci aiutano a capire come fosse la società napoletana del Settecento e quali fossero le sue “reazioni” nei confronti dei riti collettivi. Il Carnevale è uno di questi e, pur avendo come elemento in comune il divertimento e la spensieratezza, è un valido osservatorio perché veniva considerato diversamente a seconda dell’appartenenza ai vari ceti sociali.
Per il Re il Carnevale era una festa che conteneva un <<enorme potenziale propagandistico >>10 e che gli consentiva di <<canalizzare le tensioni popolari dentro uno spazio chiuso di licenza controllata >>11; per i nobili era l’occasione di esibirsi, di esercitare il proprio ascendente sui principi e signori che, da ogni parte d’Europa, venivano a Napoli per assistere ai festeggiamenti ed era l’occasione di “esorcizzare” le proprie paure, nel momento in cui, mascherati da musulmani, paradossalmente s’identificavano proprio nei nemici di sempre delle corti dell’Europa mediterranea; per il popolo, accantonata l’immagine pittoresca della festa vera e propria, del momento in cui, affamato, assalta letteralmente l’albero della “Cuccagna” ricco di cibi di ogni genere, era persino un’occasione di guadagno. Il francese Goudar ci riferisce che in occasione del Carnevale del 1774 << tutte le spese del pubblico divertimento hanno formato una circolazione di circa seicentomila ducati, che sono usciti dalla borsa del ricco per entrare in quella del popolo [...] il consumo complessivo è cresciuto; il mercante ha venduto; l'artigiano ha guadagnato; e il popolo minuto in mezzo a questa festa ha trovato una risorsa per i suoi mali >>12.
Per la Chiesa, che fin dai tempi del Concilio di Trento aveva previsto che fosse eliminato il culto degli elementi folklorici, considerati pagani, il Carnevale era una specie di “tempo del demonio” in cui uomini e donne si abbandonavano ad ogni sfrenatezza. In particolare per le autorità religiose di Napoli il Carnevale era un evento che doveva essere sottoposto a severe restrizioni, vista la licenziosità di certi costumi, come i travestimenti che prevedevano che le donne, nei panni di amazzoni o prostitute, si esponessero mezze nude per strada o nei veglioni privati.
Dodici incisioni in rame di Raffaello Morghen raffigurano un interminabile corteo organizzato nel 1778 dai nobili in collaborazione con la corte. Si trattava di personaggi, circa quattrocento fra donne e uomini mascherati, raffiguranti il Gran Visir con i suoi schiavi, ambasciatori siamesi, cinesi, persiani, indiani, eunuchi e sultane, una delle quali era la Regina Maria Carolina, e il Re, quest’ultimo non nei panni del Gran Signore ma in quelli del pascià poiché nelle rappresentazioni carnevalesche vigeva una specie di “regola dell’inversione” dei ruoli. Gli aristocratici da un lato e la plebe dall’altro erano attori-spettatori che giocavano a mescolarsi fra loro e, tornando a quanto detto all’inizio di questo capitolo, si ritrovavano servi e signori a coesistere pacificamente a Napoli anche durante i periodi festivi.
De Bourcard annotò questa “coesistenza”, caratteristica della società napoletana, nella sua opera “Usi e Costumi di Napoli”, facendo riferimento ad una particolare ricorrenza : << La festività del dì otto settembre, sacro ad onorare la ricorrenza del Nascimento di Nostra Donna, è per noi una delle più liete e delle più solenni giornate. [...] Istituita dall’immortal Carlo III pel ricupero del Regno, volge ormai più di un secolo che questa festa di Piedigrotta rallegra lo spirar dell’estiva stagione ed il cominciamento dell’autunno [...] la più grande delle feste napolitane per la parte che vi prendono tutte le classi della popolazione [...] suol cominciare il difilarsi delle milizie, passando dinanzi alla Reggia sotto gli sguardi di S.M. il Re che con S.M. la Regina e con tutta la Famiglia Reale intrattiensi ad osservarle dalle ringhiere [...] stuoli di popolani, sciami di contadini, carrozze di gentiluomini e di dame, compagnie di forestieri veggonsi ingombrare la Riviera di Chiaia, la Villa Reale e pigiarsi appo i dintorni del Santuario di Piedigrotta >>13.
La creatività e la varietà, le due caratteristiche che abbiamo considerato essere specifiche della società napoletana del Settecento, si riscontravano anche nella cucina: << Napoli divenne luogo di confronto delle grandi cucine europee dopo il 1768; Maria Carolina D’Austria impose a corte il gusto francese, imitata dall’aristocrazia e dalla grande borghesia che, adattandosi come sempre alla moda di corte, assunsero al loro servizio i cuochi (“monsieurs”, i “monzù” a cui accennavamo ad inizio capitolo) [...] I cucinieri reali distribuivano le interiora al popolo ( les entrailles ) e le donne che se le contendevano erano chiamate “zandraglie” >>14.
Nonostante queste contaminazioni straniere, i maccheroni restavano sempre il piatto più amato << sono la forma onde lo straniero contrassegna la plebe napoletana >>15 e la figura che meglio prova tutto ciò è il “Mangiatore di maccheroni”, la cui immagine venne diffusa in tutta Europa grazie a stampe tratte da incisioni su rame, dipinti e statuine del Presepe che lo raffiguravano.
A proposito della lettura demoantropologica che può essere fatta dei costumi settecenteschi napoletani e della conseguente analisi della società che se ne ricava, lo studioso Enzo Spera ha osservato che le immagini della popolazione del Regno, ritratte dai vari Hackert, Celebrano, Bonito e Traversi, << danno una visione del popolo più attardata di quanto non sia presente non solo in altri artisti contemporanei, compresi gli stessi “figurinisti” e pittori napoletani di “genere”, ma anche in relazione al modo con cui i mestieri popolari più umili erano stati rappresentati, più di un secolo prima, in Francia da A. Doy nel 1634 nella serie dei “Les cris de Paris” e ancor prima da J. Callot; e successivamente, in pieno XVIII secolo, da A. Watteau e da E. Bouchardon, negli studi ripresi tra “il basso popolo” [...] per non dire poi dell’attenzione grafica ed illustrativa con cui erano state descritte e proposte, tra il 1751 e il 1772, le attività artigianali e preindustriali nelle tavole dell ‘ Encyclopédìe, attività quelle parallelamente presenti anche nella Napoli del tempo. Un modo di guardare al popolo, o meglio alla sua immagine addomesticata e muta, che non corrisponde a quella che di esso vien data, per esempio, nella Commedia dell’Arte; [...] I costumi ritratti è pensabile che siano stati rilevati e documentati strumentalmente [...] dovevano servire forse come modelli per rappresentazioni sul tipo dei tableaux vivants e delle scene di vita campestre e popolare evocanti le tante e diverse realtà locali, con uno spirito e gusto quasi presepiale >>16.
Lo studioso paragona all ’ immagine che della società napoletana settecentesca viene data l’altra, della società veneta, filtrata attraverso la commedia goldoniana, che è quella di gente vera, capace di giudizio, di parola e di azione, che non fosse solamente un modello per statuette in biscuit, vedute, paesaggi e statuine del presepe, né fosse una << rappresentazione iconografica edulcorata e rassicurante, usata esclusivamente come base di ornato e di decorazione esotico-nostrana >>17; e ancora ci fa notare quanto fossero avanti negli studi socio-antropologici, rispetto al Regno di Napoli, paesi come la Francia e l’Inghilterra che del popolo, delle attività artigianali, degli usi e dei costumi davano descrizioni curate e documentate nelle varie enciclopedie stampate nella seconda metà del ‘700. Queste considerazioni confermano quanto abbiamo già sottolineato in questo capitolo, cioè che, all’epoca dei Borbone, i tempi non erano maturi perché si tracciasse un adeguato profilo socio-antropologico della società del Regno di Napoli.
Anche per quanto riguarda il campo specifico dell’abbigliamento militare gli studiosi sono riusciti solo da poco a mettere ordine, da un punto di vista antropologico, negli studi sui modelli e sulla storia delle varie uniformi dei vari territori italiani preunitari. Il Comandante francese E. L. Bucquoy, autore nel 1953 del “Breviaire du Collectionneur d’uniformes”, precisava, nelle pagine delle più note riviste militari, che solo dal 1947 in poi si è cominciata a diffondere tra gli studiosi la parola “uniformologia”, prima in Svizzera, in Belgio, in Germania ed in Francia, in un secondo momento in Italia.
Egli scrisse che la storia e lo studio delle uniformi attraverso i tempi costituiscono una vera e propria scienza, ausiliaria della storia, in genere, e della storia politica, in particolare.
Purtroppo in Italia gli studi riguardanti l’uniformologia sono stati caratterizzati dalla discontinuità, negli anni, delle ricerche e degli approfondimenti, che ha causato la frammentazione di una materia tanto vasta da comprendere la catalogazione dei singoli capi che costituiscono il vestiario militare, la conoscenza dell’equipaggiamento dei soldati, lo studio delle epoche e delle Nazioni che videro protagonisti questi eserciti.
Anche in questo campo, così come negli studi etnografici ed antropologici, riguardanti i costumi popolari, di cui abbiamo parlato in questo capitolo, il primato negli studi e nelle raccolte sistematiche spetta alle grandi monarchie europee, come ad esempio la Francia. Questa nazione, in cui già nel Sette-Ottocento si scrissero opere sulle uniformi e sugli eserciti, introdusse nel vicino Piemonte l’interesse per questa disciplina ed alcuni studiosi torinesi, sulla scia di quelli francesi, s’incoraggiarono a scrivere la “Dimostrazione delle uniformi delle truppe d’Infanteria quanto della Cavalleria stabilito ne scorsi anni al servizio di S.R.M. Vittorio Amedeo il Re della Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme “.
Sempre conservata presso la Biblioteca di Torino è un’altra raccolta, la “Tabelle générale des troupes du Roi de Sardaigne avec leur appointements et uniformes “ che, come le altre, è importante perché contiene figurini antichi, raffiguranti uniformi del XVIII secolo.
L’esempio del Piemonte ci serve a costatare che gli studiosi si erano ancora una volta resi conto che, per comprendere la storia di una Nazione, la sua società e le sue vicende si doveva approfondire la conoscenza di vari campi, compreso quello dell’abbigliamento popolare e militare.
Nel caso specifico del Regno di Napoli nel Settecento, lo studio delle sue uniformi contribuisce a farci capire come, essendo questo un Regno che proprio allora si stava formando, la necessità di organizzarlo e di consolidarlo si rifletteva anche nell’esercito, prima strettamente dipendente dalla Spagna e poi capace di emanciparsi dall’influenza ispanica e di acquistare, mediante una serie di riforme, un’identità “napoletana” e un suo regolamento.
Insomma, ancora una volta è attraverso l’analisi dell’abbigliamento, militare in questo caso, che risaliamo allo “stato di salute” di un determinato territorio in una determinata epoca storica, abbiamo dimostrato per l’ennesima volta che ciò che si indossa è frutto dell’epoca in cui si vive e può essere uno dei punti di partenza per condurre un’indagine socio-antropologica su una data società.
Capitolo IV
Le stoffe ed i modelli
In questo ultimo capitolo faremo una carrellata di quali particolari stoffe e modelli caratterizzassero l’abbigliamento del Settecento nel Regno di Napoli, ma prima di approfondire l’argomento è giusto osservare che questo “viaggio” tra gli abiti, le uniformi e i costumi è stato anche un ’ occasione per provare a capire, attraverso le manifatture, le produzioni e le attività del Regno dei Borbone, quali fossero le condizioni del Mezzogiorno prima dell ’ Unità d’Italia.
Abbiamo visto che all’interno della compagine territoriale del Regno c’erano popolazioni eterogenee, eredi di molteplici influssi culturali e custodi delle più svariate tradizioni, così come abbiamo visto che la capitale non doveva invidiare nulla alle altre grandi città europee, anzi vantava, assieme a Parigi, il primato di città più grande d’Europa e, nel panorama artistico-culturale europeo, si affermava come città ricca di iniziative.
Molti hanno visto proprio in Carlo III e in Ferdinando IV i fautori di queste iniziative, delle tante attività artistiche a Napoli e, complici le scoperte di Ercolano e di Pompei avvenute durante il loro regno, hanno visto in loro due sovrani capaci di rendere Napoli capitale culturale tanto importante da essere tappa obbligata del Grand Tour dell ‘ élite europea.
Alcuni, ad esempio, hanno sottolineato l’apertura internazionale di Carlo III, grazie alla quale s’introdusse nella Capitale l’interesse per le cineserie e per le turcherie; l’attenzione del sovrano per la produzione dei mobili secondo il gusto francese, che “costrinse” gli ebanisti partenopei a raffinare la loro arte apprendendo la particolare tecnica d’intaglio ligneo degli artigiani d’Oltralpe; la vera e propria passione di entrambi i sovrani per l’arte presepiale, al punto che, nella preparazione degli allestimenti, coinvolsero artisti quali Celebrano, Sanmartino, Vaccaro, Viva, Bottigliero; l’incentivazione, da parte di Carlo III, ad avviare le fabbriche della porcellana, a creare vere e proprie botteghe per le maioliche, ad incrementare la produzione di lavori in oro e argento, a tal proposito ci sono persino testimonianze di contatti fra la corte borbonica e gli argentieri parigini, fino ad arrivare all ‘ ideazione della fabbrica degli arazzi e, durante il regno di Ferdinando IV, delle manifatture seriche di San Leucio, delle quali abbiamo parlato nel paragrafo 2.3 .
Per quanto riguarda le stoffe, in particolare, diciamo che è stato nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso che la ricerca antropologica sull’abbigliamento popolare si è intensificata perché, secondo quanto ci riferisce la studiosa Elisabetta Silvestrini in un suo saggio, allora si verificò << un nuovo affermarsi, in Italia, degli studi sulla storia dell’abbigliamento e sulla storia del tessuto, studi effettuati anche attraverso nuove tecniche di analisi e nuove metodologie >>1, ma che non sono ancora stati sufficienti a colmare determinate lacune.
Infatti la difficoltà nell’affrontare questa tesi è stata sia quella di trovarmi di fronte a notizie frammentarie, non tanto sui costumi popolari sui quali, abbiamo appena appreso, si sono realizzate negli anni alcune pubblicazioni, quanto sulle uniformi e sugli abiti di corte, sia quella di scoprire che , in ogni caso, non esistono libri che, in modo unitario e compatto, raccolgano esclusivamente descrizioni e notizie sull’abbigliamento delle classi sociali del Regno di Napoli nel Settecento. Diciamo perciò che questo lavoro vuole essere un piccolo tentativo di colmare questo vuoto e anche l’occasione per fare una radiografia alla realtà del tempo, per vedere come si collocasse il Mezzogiorno, da un punto di vista sociale, incluse le attività artistiche, quelle manifatturiere e artigianali, nello scacchiere delle monarchie europee e quanto si riscontrasse del carattere, delle abitudini e del tenore di vita dei singoli ceti sociali, negli abiti indossati sia tutti i giorni, che nelle occasioni e durante particolari festività.
La prima cosa che credo sia emersa da questa indagine è che, pur dovendo accontentarsi di stoffe più semplici e modelli meno raffinati rispetto all ‘ aristocrazia, le classi medie e piccolo-borghesi riuscivano in cambio a creare una varietà maggiore di capi, ciascuno rappresentativo del proprio paese e legato alle più svariate tradizioni, la gente del popolo poteva insomma spaziare con la fantasia, mentre i nobili napoletani si omologavano alla moda delle altre corti europee, prima quella francese e poi, verso la seconda metà del ‘700, quella inglese, trovandosi intrappolati in canoni stabiliti.
Se solo pensiamo alla fantasia con cui le donne del popolo disponevano insieme i vari “pezzi” per creare i propri costumi popolari, dal bustino alla gonna, dal grembiule alla camicia, dalla zimarra al corsetto, dal mantello al copricapo, e riflettiamo sulla varietà dei colori, sebbene ricavati in casa, con estrema semplicità, dai succhi vegetali estratti dalle foglie delle piante, ci rendiamo conto di quanto ci sia da scoprire ripercorrendo la storia dei costumi del Regno di Napoli nel Settecento.
La stoffa che comunemente si utilizzava per la camicia femminile era il cotone, qualche volta anche la canapa, altre volte la trama era più complessa, formata da fili di diversi materiali, ad esempio si utilizzavano seta e cotone insieme e poi si arricchiva il capo così ottenuto aggiungendovi merletti e ricami. Anche il corsetto poteva esser confezionato con più materiali, al raso si sovrapponevano magari ricami in oro filato e seta e per foderarlo si usava la tela. Le vesti erano in lana pesante, talvolta foderate nella parte superiore in canapa, bianca o ocra, mentre le gonne erano di seta, lino, cotone e seta tessuti assieme o solo lana, e le sottogonne di cotone.
La stoffa dei grembiuli variava dal taffettà, alla lana, alla seta, da soli o tessuti con filo laminato. Per confezionare i casacchini venivano utilizzati fili di lana, seta e laminato d’argento o d’oro, per i panciotti veniva usato il cotone e per le sopravvesti il maggior numero possibile di stoffe, quali seta, cotone, flanella, ecc.. .
Le calze erano quasi sempre in filo di cotone, ma ne esistevano anche esemplari di lana lavorata ai ferri, ed infine i copricapi potevano essere in lana, se si trattava di berretti, in merletto di cotone, se si trattava di “tovaglie”, in tulle di cotone se si trattava di un vero e proprio velo triangolare, in ogni caso, d’inverno si optava per i copricapi di lana, d’estate per quelli di cotone.
Di questi “fazzoletti”, che venivano usati per coprire il capo, c’erano vari modelli: legati intorno al capo, di cotone fiorato, oppure molto ampi, veri e propri scialli frangiati, impiegati per le occasioni festive, oppure realizzati in cotone bianco, trinato o ricamato, e legati intorno al collo per ricoprire la scollatura. I tessuti variavano inoltre secondo la zona di appartenenza, il pesante abbigliamento degli abitanti di luoghi di montagna era ad esempio improntato a colori scuri e per realizzarlo, oltre alla filatura e alla tessitura domestica, esistevano anche cardatori ambulanti, venditori di stoffe ambulanti e piccole fiere di paese dove acquistare i tessuti.
Fonti indispensabili per conoscere quali stoffe si usassero per confezionare gli abiti, nei vari territori del Regno, erano gli elenchi dotali stilati dai notai. Questi documenti enumeravano capi di vestiario e loro caratteristiche, svelando che spesso nei piccoli paesi si tentava di emulare la moda dei centri urbani, poiché chi preparava la dote per la propria figlia sperava che i suoi abiti non fossero inferiori a quelli dei “cittadini”.
Camicie, busti, maniche staccate, gonne, grembiuli, scialli, copricapi e gioielli venivano elencati in atti, poi depositati negli archivi dei vari luoghi, in cui ci si soffermava a descriverne i particolari, come nel caso degli abiti da sposa, dotati magari di tutto un loro corredo, drappi in tessuto laminato dal fondo colorato, sottane, manti in velluto, fazzoletti ricamati, ecc... .
Le stoffe che prevalevano erano panni di lana, cotoni, pizzi e merletti, mentre i colori, oltre al classico bianco per gli abiti da sposa, variavano dal rosso al turchino e dal verde al caffè. Diversi erano anche i gioielli, si descrivevano negli atti particolarissime forme di orecchini in oro e argento: “a navicella”, con pendenti, “a mandorla”, a forma di fiore, filigranati, a cerchio, “a cavalluccio”; ancora ciondoli, croci, spille, aghi crinale, collane di corallo, fermagli, corone di rosario di granate, anelli, fili di perle e persino orecchini da ragazzo.
Questi dunque alcuni degli oggetti, in preziosi materiali, e alcune delle stoffe posseduti dagli abitanti delle zone rurali del Regno, quella stessa “plebe” che Eleonora De Fonseca Pimentel descrisse con rispetto nel 1799 definendola << quella parte di popolo che comprende non solo la numerosa minuta popolazione della città, ma benanche la più rispettabile delle campagne e se sopra di queste poggia la forza dello Stato, vi poggia nella democrazia la forza non solo, ma la sua dignità >>2.
Dunque questi erano per la gente del popolo preziosi lavori, facenti parte del loro patrimonio, se addirittura li troviamo elencati tra i beni dotali. Lavori in lana, cotone e altre fibre, realizzati nei vari territori del Regno, la stessa Napoli produceva baiette, londrini, rattine3, la Puglia vesti e coperte, in particolare la provincia di Bari produceva panni in canapa e in lino e la provincia di Lecce panni in cotone. Nonostante questo, come più volte abbiamo avuto modo di sottolineare attraverso le parole di Galanti, le manifatture del Regno avevano << lo svantaggio dell’apparecchio e delle tinte >> e in alcuni territori << non essendoci fiumi non si possono avere fabbriche di lana >> , mentre in altri non mancavano certo le fabbriche, ma i prodotti << per l’alto prezzo della manifattura non trovano compratori >> e, in ogni caso, molte stoffe << sono lontanissime dalla perfezione, sono di cattivo gusto per difetto d’istromenti e di scuole di disegno >> e << mancano telai per molti lavori >>4.
Se paragonassimo gli abiti popolari a quelli dell’aristocrazia, vedremmo che i primi erano frutto delle tradizioni, della cultura locale, delle possibilità economiche dei singoli abitanti delle varie comunità, mentre i secondi dipendevano esclusivamente dalla capacità dei nobili ad omologarsi alla moda europea e, anche volendo, questi ultimi non potevano distinguersi ma dovevano conformarsi a forme sartoriali standardizzate. In particolare, presso la Corte dei Borbone non si poteva evitare di seguire le mode degli altri reami, poiché non esistevano disegnatori e sarti che si dedicassero ad ideare abiti per i reali e per gli aristocratici e quindi a creare uno stile peculiare del Regno di Napoli. Le stoffe che servivano a realizzare gli abiti dei nobili napoletani, dalla semplice livrea all’abbigliamento diplomatico, passando per gli abiti di gala, provenivano dall’Oriente e dalla Francia e i sarti che li confezionavano erano parigini, di conseguenza nel Settecento non esistette un’alta moda napoletana, ma semplicemente si seguì quella francese.
Le stoffe che accomunavano i nobili abiti maschili, in particolare giacche, marsine e gilet, erano i velluti, semplici o cesellati in pelo di seta e spesso riccamente decorati da ricami in oro raffiguranti motivi floreali, i rasi ed infine le tele di lino e di cotone, per fodere e controfodere interne.
Come possiamo notare, quegli stessi panni di lino e cotone indispensabili per confezionare i semplici abiti popolari sono invece qui relegati nelle fodere, poiché altri e ben più preziosi erano i tessuti offerti al tatto di chi ammirava gli abiti di corte. Tra i tessuti che costituivano gli abiti femminili vi erano i taffettà, la seta, i tessuti marezzati5, i broccati, in oro e in sete policrome, le preziose passamanerie, come i merletti in seta e i nastri, il pékin di seta6, i decori su seta, ottenuti con una particolare tecnica, chiné à la branche, che consisteva nel tingere direttamente l’ordito, il gros di seta bianco che, talvolta, sostituiva la tela di lino per foderare le marsine, il tulle di seta, il dorso delle redingote eseguito “a teletti”7. A proposito della redingote apriamo una parentesi: questo modello di abito maschile si affermò soprattutto dopo la Rivoluzione Francese perché risultò essere molto più pratico della classica marsina settecentesca e più adatto al modello di vita all’aria aperta teorizzato da Rousseau; essa veniva realizzata in tessuti leggeri, prevalentemente sete, e la moda dell’epoca prevedeva che, per essere veramente elegante, un uomo dovesse indossarla con i calzoni in pelle e gli stivali in cuoio.
E ancora, altri tessuti con cui si confezionavano gli abiti di corte potevano essere i panni di lana, la seta liseré, l’ermisino8 di seta, l’argento filato, le paillettes, che venivano impiegate sulle stoffe per disegnare fiordalisi, palmette e motivi antropomorfici, i ricami in canutiglia9 d’argento, le ciniglie10 policrome, i filati in ciniglia, i filati metallici e la garza11 di seta.
Gli ampi abiti di gala delle dame si prestavano a questi ricami e disegni realizzati con la varietà di fili di stoffa appena descritta. Possiamo immaginare nobildonne della corte borbonica indossare ingombranti modelli, stile “robe à la française”, in pékin di seta a fondo chiaro, magari avorio, perché, di proposito, la tinta tenue mettesse in risalto righe, tralci di fiorellini policromi e altri ricami decorativi. Queste vesti, con ampi panneggi di pieghe, erano di solito aperte anteriormente, sul “pièce d’estomac” e sulla sottana, ed erano completate da applicazioni in merletto e passamaneria che si disponevano lungo i bordi e i pannelli anteriori delle gonne.
Oppure immaginiamo dame che indossavano modelli apparentemente più semplici, privi di ricami a rilievo, ma ricchi nell’intensità dei colori delle stoffe, magari sgargianti sete rosse, arricchiti sulla scollatura da grandi nastri di raso chiusi a fiocco e da merletti.
Un discorso a parte meritano le stoffe usate per confezionare le uniformi militari, poiché in quel caso non si trattava di scegliere le più belle o le più sfarzose, sebbene la nettezza e la bellezza di quei capi contribuissero ad accrescere il prestigio dell’esercito del Regno di appartenenza, ma di optare per tessuti resistenti e che permettessero ai soldati di svolgere le loro missioni, il tutto ovviamente nei limiti dell’epoca, perché non esistevano fibre tessili sintetiche aventi le caratteristiche che conosciamo oggi.
Anche in questo caso il Regno di Napoli non disponeva di atelier che confezionassero le uniformi, bisognerà aspettare gli ultimi due decenni del Settecento perché si stabilissero sul territorio delle manifatture reali permanenti. Delle stoffe usate per confezionare divise abbiamo notizia attraverso le varie “ordinanze” che hanno scandito gli anni di Regno che vanno dal 1743 al 1791 e i cui testi scritti sono conservati negli Archivi Militari.
Vi sono inoltre riviste specializzate, come “Divisas y Antiguidades”, su cui sono pubblicati estratti di cedole, coeve al periodo che stiamo trattando, che forniscono dettagli sulle uniformi dei soldati dei Borbone.
In questi documenti si fa riferimento ai tessuti delle uniformi della fanteria e, più in generale, delle truppe a piedi, si parla di tela per le camicie delle truppe, di lino per le camicie degli ufficiali, di feltro per il tricorno che portavano sul capo, di lana gialla o bianca per i galloni che bordavano il tricorno delle truppe e di fili d’oro o d’argento per i galloni che bordavano il tricorno degli ufficiali.
E ancora, si parla di cuoio per la giberna, di pelle per gli stivali, di metallo per i bottoni, di raso per le coccarde sui copricapi. In particolare, in un’ordinanza del 14 settembre 1771 si prescrive tassativamente la tela battista per i manichetti delle camicie estive degli ufficiali inferiori, i berrettoni di pelo nero per i granatieri, le sete per i giamberghini, il velluto nero per foderare le giberne; un’altra ordinanza del 1783 prescrive poi i calzoni di pelle gialla per gli appartenenti alla cavalleria, mentre il “piano” del 1788 prevede che la fanteria indossi panciotti di tela o traliccio bianco per difendersi dalla calura estiva.
L’unico capo d’abbigliamento militare napoletano “originale”, cioè non derivato da elementi stranieri, soprattutto spagnoli, fu la “paglietta”, un cappello tondo, piccolo, con la falda sinistra rialzata, guarnito di coccarda, pompon della compagnia di appartenenza e nastro rosso attorno al giro della cupola, il cui uso si diffonderà dopo il 1799.
Deduciamo da queste descrizioni che, a differenza degli abiti popolari e di quelli indossati dagli aristocratici, il vestiario militare era (e in fondo, anche ai nostri giorni, è) caratterizzato da fibre diverse, un po’ più particolari, rispetto a quelle comunemente usate: feltro, metalli, dal bronzo al ferro e dall’oro all’argento, piume, pelo d’orso, pelle di daino, pelle di leopardo, cuoio, pellami vari, ciniglie più rozze rispetto a quelle che abbiamo descritto parlando degli abiti di corte, velluti, meno pregiati ma più resistenti, tele di lino grezzo, lana e cotone.
Concludo questo lavoro affermando che è utile sottolineare come non solo gli abiti, ma persino la varietà delle singole fibre tessili, i modelli e i tipi di lavorazione dei tessuti facevano la differenza tra ceti e si caricavano di una serie di significati, tradizioni e peculiarità che variavano da classe a classe, da categoria a categoria e da territorio a territorio, diventando specchio della società del XVIII secolo e svelandone pregi e difetti.
BIBLIOGRAFIA
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CAPITOLO II ( Abbigliamento delle classi del Regno )
2.1Costumi popolari
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Sandre Antonio, Il costume nei tempi (Volume II, Dal Rinascimento ai tempi odierni) Torino, Scuola di taglio moderno, 1960-61
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Trombetta Ada, Note sul costume popolare nel Molise, in Napoli-Firenze e ritorno, Napoli, Guida Edizioni, 1991
Vuoso G., Ischia negli scritti del filosofo inglese George Berkely; Atti relativi al periodo 1970-84, Napoli, Centro Studi sull’Isola d’Ischia, 1984
2.2Uniformi militari
AA.VV., Mostra delle Armi ed Uniformi napoletane: 1734-1860; catalogo a cura del comitato organizzatore, Napoli, Museo Gaetano Filangieri, 1969
AA. VV., Il soldato europeo del Settecento, Roma, Rivista militare europea, 1987
Argiolas Tommaso, Storia dell’Esercito Borbonico, Napoli, ESI- Edizioni Scientifiche Italiane, 1970
Boeri Giancarlo, Origini delle uniformi nel Regno di Napoli, Roma, [s. n.], 1993
Boeri G. Carlo, L’esercito borbonico dal 1789 al 1815, Roma, Ufficio storico SME, 1997
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2.3Abiti di corte
AA. VV., El Arte de la Corte de Nàpoles en el siglo XVIII - Catalogo della Mostra a cura di Nicola Spinosa, Madrid, TF Artes Graficas, 1990
AA. VV., Eleganza della moda fra ‘700 e ‘800, Milano, Skira Editore, 1997
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Pescione Raffaele, Il tribunale dell’arte della seta a Napoli, Napoli, Unione tipografica combattenti, 1923
Picone Causa Marina (a cura di), Disegni Napoletani del Settecento, Napoli, Società Editrice Napoletana, 1981
Roche Daniel (traduzione di Sergio Luzzatto), Il linguaggio della moda, Torino Einaudi, 1991
Tescione Giuseppe, L’arte della seta a Napoli, Napoli, C.P.E.C.N., 1932
Capitolo III ( Profilo socio-antropologico della società del tempo attraverso l’analisi dei costumi )
Dompè Giovanna, Piccola storia dell’abbigliamento, Torino, Loescher, 1978
Mancini Franco, Feste ed apparati civili e religiosi dal Viceregno alla Capitale, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1997
Marangoni Guido, Storia dell’arredo e dell’abbigliamento nella vita di tutti i tempi e di tutti i popoli Voll. 2, Milano, Società Editrice Libraria, 1935
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Rak Fasulo Maria Giovanna, La cucina napoletana, Roma, Newton & Compton Editori, 1995
CAPITOLO IV ( Le stoffe ed i modelli )
AA. VV., Eleganza della moda fra ‘700 e ‘800, Milano, Skira Editore, 1997
Morini Enrica, Storia della Moda XVIII-XX secolo, Milano, Skira, 2000
Pompeo Francesco, Il costume della “procidana” in Napoli-Firenze e ritorno, Napoli, Guida Editori, 1991
Silvestrini Elisabetta, Documenti etnografici nelle tempere lorenesi in Napoli-Firenze e ritorno, Napoli, Guida Editori, 1991
Trombetta Ada, Note sul costume popolare nel Molise in Napoli-Firenze e ritorno, Napoli, Guida Editori, 1991

discussa dalla candidata Cristiana Andolfi presso la Seconda Università degli Studi di Napoli, Corso di Laurea in Conservazione dei Beni Culturali.

 

 

 

Introduzione........................................................................ p. 1

 

Capitolo I : I Borbone nella Napoli del ‘700......................... p. 5

 

Capitolo II: Abbigliamento delle classi del Regno
2.1 Costumi popolari ......................................................... p. 29
2.2 Uniformi militari............................................................ p. 74
2.3 Abiti di corte................................................................. p. 100

 

Capitolo III: Profilo socio – antropologico della società del tempo attraverso l’analisi dei costumi........................................... p. 125

 

Capitolo IV: Le stoffe ed i modelli..................................... p. 149

 

Bibliografia........................................................................ p. 163

 

 

 

Contenuto del Capitolo I : breve profilo dei due sovrani Carlo III e Ferdinando IV, appartenenti alla dinastia borbonica, che, proprio nel momento in cui il Regno di Napoli raggiungeva una sua autonomia emancipandosi dall’orbita spagnola, hanno dato impulso alle attività artistiche nei vari territori regnicoli e hanno conferito a Napoli la dignità di grande Capitale europea del ‘700.

 

Contenuto del Capitolo II : descrizione dell’abbigliamento delle classi del Regno di Napoli: costumi popolari, costumi realizzati per le statuine del celebre Presepe napoletano, costumi indossati, sia dal popolo che dall’aristocrazia, in occasione di festività e ricorrenze, abiti di corte e uniformi militari dell’Esercito del Regno di Napoli dal 1734 al 1799; ciascuno dei tre paragrafi, in cui è suddiviso il Capitolo II, è corredato di immagini di riferimento.

 

Contenuto del Capitolo III : il costume, l’abito e l’uniforme di una particolare area geografica in un determinato periodo storico, in questo caso il Regno di Napoli nel XVIII secolo, considerati un importante documento etnografico, il cui studio fornisce essenziali indizi sul tenore di vita, sui molteplici influssi culturali, sul carattere e sulle usanze della società napoletana di quel secolo.

 

Contenuto del Capitolo IV : panoramica delle stoffe e dei modelli indossati dai vari abitanti delle diverse classi sociali del Regno di Napoli nel ‘700.

 

 

 

Introduzione

 

La storia di una società non si scrive soltanto raccontando le sue vicende politiche, ma anche non dimenticando di analizzare tutto quello che fa parte del suo vivere quotidiano, compresi gli abiti, i costumi e le uniformi dei vari ceti sociali che la compongono.

 

Questo mio lavoro ha appunto il compito di mettere in luce gli aspetti caratterizzanti la società napoletana del Settecento, puntando l’attenzione sull’abbigliamento, settore che troppo spesso passa inosservato nella storia di un popolo.

 

I costumi possono considerarsi veri e propri “documenti” di un popolo, infatti studiandoli si risale alla condizione economica e sociale di un determinato territorio in una determinata epoca, al tenore di vita dei suoi abitanti e persino a come fossero organizzate le attività artigianali, artistiche ed, eventualmente, industriali di quel luogo, poiché per realizzare i capi d’abbigliamento si passa dal reperimento delle materie prime alla loro lavorazione, fino a giungere alla realizzazione dei modelli e, in tale processo, vengono coinvolti luoghi, persone e capitali finanziari.

 

Poiché del Settecento non abbiamo, ovviamente, documenti fotografici, il mio punto di riferimento sono stati dipinti, acquerelli, disegni, incisioni, immagini riprodotte sui servizi di Porcellana di Capodimonte, testimonianze scritte coeve all’epoca presa in esame, saggi, articoli, cataloghi di mostre e libri, anche se, riferendoci a questi ultimi, non vi sono volumi che trattino dell’abbigliamento del Settecento nel Regno di Napoli.

 

Non è stato facile quindi portare avanti questa tesi sperimentale, essendo la documentazione frammentaria, sparsa in Biblioteche Nazionali, Universitarie, Archivi di Stato e Archivi Militari, Musei e Associazioni Culturali del territorio campano, ma soprattutto di Napoli.

 

Ribadisco che purtroppo nessuno studioso si è, fino ad ora, occupato in modo unitario ed esaustivo dell’abbigliamento delle classi del Regno di Napoli nel Settecento, nel mondo accademico ci si è concentrati su altro, preferendo magari realizzare degli studi completi sulle ceramiche, sui tessuti per confezionare paramenti religiosi, sui generi pittorici affermatisi in quell’epoca, sull’arte presepiale, sugli usi e sulle tradizioni del tempo, ma manca una visione d’insieme degli abiti delle classi sociali, mentre, nel corso di questo lavoro, mi sono convinta sempre più del fatto che molti frutti avrebbero potuto dare degli studi etnografici, specifici ed approfonditi, condotti sul costume popolare, sull’abbigliamento dei nobili e sulle uniformi militari del Regno di Napoli.

 

Esponendo questi argomenti, ho cercato il più possibile di seguire uno schema ordinato, poiché la Storia Moderna, nello specifico le vicende che hanno come protagonisti Carlo III e Ferdinando IV di Borbone, è stata la spina dorsale della mia ricerca, ma il fulcro di questo lavoro sono stati i paragrafi centrali.

 

In essi descrivo l’abbigliamento delle classi del Regno, per il quale ho dovuto documentarmi dettagliatamente, essendo il Mezzogiorno un territorio vasto ed essendo il vestiario delle sue popolazioni legato alle più svariate combinazioni, soprattutto durante festività e ricorrenze.

 

Non dimentichiamo inoltre che solo nel XVIII secolo il Regno di Napoli ha raggiunto una sua compattezza ed autonomia, necessitando di un ’ organizzazione politica, economica e sociale.

 

Tutti questi mutamenti si riflettevano sul vivere quotidiano rendendo lo studio di questi territori del Sud Italia più stimolante rispetto a quello delle grandi monarchie europee che erano sì potenti, socialmente avanzate e con secoli di storia unitaria alle spalle, ma essendo ormai realtà consolidate, ben poche novità avrebbero riservato a chi, nel XVIII secolo e oltre, si fosse apprestato a studiarne la loro evoluzione, mentre i territori del Regno di Napoli andavano a costituire una realtà nuova, un terreno fertile per le indagini degli studiosi.

 

 

 

Capitolo I

 

Borbone nella Napoli del Settecento

 

<< E’ vero, qui non si può fare qualche passo senza che ci si imbatta in individui mal vestiti, o vestiti persino solo di stracci, ma non per questo loro sono perdigiorno o fannulloni! Anzi, paradossalmente oserei dire che a Napoli il lavoro maggiore viene svolto dalle persone dei ceti bassi [...] il cosiddetto “lazzarone” non è meno attivo di chi appartiene a una classe agiata, e tuttavia bisogna prendere nota che qui tutti lavorano non solo per vivere, ma anche per godersi la vita; pure nella fatica vogliono essere felici >>

 

1. Questo scrisse Goethe nel suo “Viaggio in Italia”, definendo Napoli “un paradiso abitato da diavoli”. Proprio qui, nella città prima greca, romana e medievale dei decumani, poi spagnola ed infine neoclassica, che aveva ospitato per pochi anni il vicereame austriaco, proprio qui giunse Don Carlos, figlio del Re di Spagna Filippo V e di Elisabetta Farnese.

 

Con l’ingresso di questo sovrano Napoli cessa di essere parte di quello che lo storico José Maravall aveva definito “sistema imperiale spagnolo” e acquista la sua autonomia.

 

La condizione del Mezzogiorno di Vicereame ha nel tempo creato dibattiti accesi fra gli studiosi, alcuni sostengono che il rapporto del territorio napoletano con la Corona sia stato sì di subordinazione ad essa, ma anche di autosufficienza giuridica e politico-istituzionale e che Napoli, essendo il territorio a cui la Spagna teneva di più per la sua importante posizione geografica al centro del Mediterraneo, poteva considerarsi già una capitale; altri storici credono invece che i vari viceré che si avvicendarono si siano limitati a spremere il più possibile le finanze del Mezzogiorno d’Italia facendo di Napoli e dei territori limitrofi un serbatoio a cui attingere per rifocillare la Spagna.

 

Sarà dal 1734 in poi che cambieranno molte cose, ma prima facciamo un passo indietro.

 

Con i trattati di Utrecht e Rastadt (1713 – 1714), che siglarono la pace fra i vari contendenti europei, l’Austria era riuscita ad ottenere i territori italiani. Carlo III, con la promessa che appena maggiorenne avrebbe ottenuto il trono del Regno di Napoli, fu nominato da suo padre Filippo V capo delle forze spagnole in Italia e si avviò alla conquista del Sud, dove si insediò come Re di un nuovo Regno, il Regno delle Due Sicilie.

 

Lo accompagnava quel Bernardo Tanucci che sarebbe stato nominato Ministro di Giustizia e, anni dopo, reggente per il figlio minore Ferdinando.

 

Carlo III è stato considerato da alcuni “l’uomo della provvidenza”, il sovrano illuminato, mentre è stato denigrato dalla critica antiborbonica.

 

Mettendo da parte questi giudizi, diremo che fu l ‘ uomo, appartenente ad una delle più importanti dinastie europee, che si ritrovò, in quel determinato momento storico, a gestire un territorio particolare per la sua eterogeneità e piuttosto complesso.

 

Napoli era allora una città in cui la Magistratura era una sorta di “Stato nello Stato”, composta da una gran parte di uomini di legge corrotti, in cui i baroni non avevano limiti nell’agire, sobillando la povera gente contro gli stessi sovrani, e in cui c’era miseria e malcontento fra la popolazione.

 

Il nuovo re sembrò guadagnarsi da subito l’affetto del popolo, elargendo una serie di donativi e perlustrando personalmente le province del Regno; grazie alla sua ascesa al trono, si verificò inoltre il passaggio di numerosi tesori da Parma a Napoli poiché, tra le rinunce al ducato di Parma e Piacenza in favore dell’Austria, Carlo III era almeno riuscito ad aggiudicarsi la collezione farnesiana di dipinti, statue, monete e disegni.

 

Dal 1739 in poi, con il susseguirsi della scoperta di Ercolano , dell’acquisto da parte del Re di un terreno a Portici, della creazione dell’Accademia Ercolanese, del restauro del Palazzo Reale, dell’edificazione del Teatro San Carlo, dell’istituzione della Real Fabbrica di Capodimonte e dell’avvio dei lavori per la realizzazione della Reggia di Caserta, Napoli e i territori limitrofi divennero degni di gareggiare con le altri capitali europee.

 

Carlo III non poteva ignorare i problemi sociali che affliggevano la plebe urbana e tra le prime cose che fece vi fu la costruzione dell ‘ Albergo dei Poveri per arginare l’affollamento dei rioni della Capitale da parte dei mendicanti; su consiglio di Padre Rocco, una specie di “missionario cittadino”, il Re acconsentì che fossero meglio illuminate le strade di Napoli, per mezzo di lampade poste davanti ai tabernacoli, che fossero concessi più svaghi al popolino e che, in generale, venissero messe in pratica le nuove teorie che teorizzavano pensatori del calibro di Voltaire, Diderot, Montesquieu e Genovesi.

 

Fu quest’ultimo ad affermare che << la ragione non è utile se non quando è diventata pratica e realtà; né ella divien tale se non quando tutta si è diffusa nel costume e nelle arti, che noi l’adoperiamo come nostra sovrana regola, quasi senza accorgercene >>

 

2. e, riferendosi alla formazione del Regno di Napoli, lodò nel 1754 le iniziative politiche del sovrano << [...] cominciamo anche noi ad avere una Patria e ad intendere quanto vantaggio sia, per tutta una nazione, avere un proprio principe. Interessiamoci all’onore della nazione! I forestieri conoscono, e il dicono chiaro, quanto potremmo noi fare, se avessimo migliori teste. Il nostro augusto sovrano fa quanto può per destarci.

 

Egli concluse con la Porta ottomana, l’anno 1740, un trattato di pace e di navigazione in nostro pro; egli ne ha concluso un altro ultimamente cogli olandesi; ora si tratta per un altro cogli inglesi; va aumentando la marina per reprimere l’audacia degli africani; ha contribuito all’istituzione di una cattedra di commercio. Che vogliamo di più? Io so che si vuole, ma se noi non ci svegliamo, noi non l’otterremo mai >>

 

3. Nonostante la buona volontà del sovrano, il Regno di Napoli rimaneva comunque impantanato in tasse, dazi, privative che impedivano all’economia di decollare poiché le merci non circolavano liberamente e, anche anni dopo che Carlo ebbe lasciato la città per recarsi in Spagna, rimasero cronici i problemi di approvvigionamento, aggravati dalla carestia del 1764 e sfociati in ondate di proteste che, in quegli anni, venivano inviate a Napoli da parte di varie popolazioni del Regno

 

4. Nei primi sette anni del regno di Carlo, fase entusiasticamente definita dal marchese Tanucci “gli anni eroici della dinastia”, grazie alla restaurazione dell’autonomia nazionale e ad un certo rilancio economico, la circolazione della valuta aumentò, i Banchi pubblici registrarono un incremento del 5% fra il 1734 e il 1741.

 

Ma quando, tra il 1741 e il 1742, Carlo dovette impegnare il suo esercito per aiutare gli spagnoli che fronteggiavano gli austriaci in Italia settentrionale, nel 1743 dovette provvedere al trasferimento della Regina a Gaeta e infine in quegli stessi anni ci fu la peste di Messina e in più si era diffusa la voce che la dinastia borbonica stesse per crollare, allora si registrò una diminuzione della circolazione del denaro e anche i depositi si ridussero.

 

Cessata la guerra, il governo di Carlo cercò di riprendere la politica delle riforme.

 

Tra il 1734 e il 1759 il denaro dei Banchi pubblici fu speso per sanare il debito pubblico, per immobili, mutui, prestiti, e soprattutto per i debiti che la Regia Corte aveva accumulato a causa delle spese per la Casa Reale, per l’esercito, per la diplomazia e per la segreteria di stato.

 

Anche in campo militare crebbero le spese, fu creato dal niente un esercito, con propri corpi e proprie uniformi, delle quali parleremo nel capitolo successivo, fu creata una flotta e furono consolidati i preesistenti presidi di terra e di mare.

 

Carlo però intuì che sarebbe stato inutile sforzarsi di creare una flotta imbattibile perché non avrebbe mai potuto competere con quelle, già esistenti, delle grandi monarchie europee, così si limitò ad attrezzare una flottiglia leggera e veloce che almeno fosse stata in grado di fronteggiare i pirati barbareschi.

 

Il 20 gennaio 1752 Carlo III pose la prima pietra per la costruzione della Reggia di Caserta, chiedendo al Vanvitelli di non badare a spese e di crearvi stanze estive ed inverstnali, grandi saloni per pubbliche cerimonie, belvederi, gallerie, una biblioteca, un tribunale con relativi uffici, una chiesa, un seminario, un teatro con camerini per gli attori, un osservatorio astronomico, una segreteria reale, e centotrentasei camere in aggiunta a quelle già previste per gli addetti alla Corte.

 

Il Re, in seguito, avrebbe desiderato che Carlo Goldoni si trasferisse a Napoli per diventare direttore del teatrino di Corte, progetto che sfumò per la partenza del sovrano.

 

Nel 1759 Carlo dovette lasciare il Regno di Napoli per andare ad occupare il trono di Spagna, stma suo figlio Ferdinando era troppo piccolo, così fu un consiglio di otto reggenti ad occuparsi della sua educazione finché non avesse raggiunto la maggiore età per regnare.

 

Il più autorevole di questi reggenti fu il toscano Bernardo Tanucci.

 

Su questo personaggio la storiografia si è divisa, alcuni hanno scritto che fece il possibile per governare nel modo più giusto, altri lo hanno accusato di manovre poco chiare.

 

In alcuni scritti di Sir William Hamilton gli studiosi hanno letto fra le righe molti riferimenti del nobiluomo inglese all’indisciplinatezza del piccolo Ferdinando che, secondo lui, sarebbe stata assecondata dal Tanucci per essere libero di occuparsi di politica.

 

Alcuni storici hanno poi affermato che l’accusa che Ferdinando indirizzò al Tanucci, cioè che fosse quest’ultimo il responsabile della rovina del paese, fosse stata suggerita dalla Regina stessa che a sua volta aveva mire espansionistiche.

 

Inoltre, il fatto che Tanucci ben poco fosse riuscito a fare per affrontare la carestia del 1764, flagestllo a cui accennavamo ad inizio capitolo e che si disse avesse costretto i fornai a mescolare polvere di marmo alla farina, contribuì a screditarne la figura.

 

Dal libro di Giuseppe Campolieti, “Il Re Lazzarone”, apprendiamo invece che la sola figura che potesse influire negativamente sul carattere del piccolo Ferdinando era il Principe di San Nicandro, nominato suo tutore ed indicato nelle “Memorie” scritte da Giuseppe Gorani nel 1793 come << lo spirito più impuro che mai fosse nato sotto il cielo di Napoli >>

 

5. Quando ancora la Famiglia Reale non immaginava che, per i suoi problemi psichici, il primogenito di Carlo, Filippo Pasquale, non sarebbe mai salito al trono di Napoli, né il secondogenito, Carlo Antonio, perché destinato al trono di Spagna e non sospettava neanche lontanamente che alla fine il prescelto sarebbe stato Ferdinando, augurava a quest’ultimo una brillante carriera ecclesiastica affinché egli diventasse un futuro vescovo, un successore dello stesso cardinale arcivescovo di Napoli o addirittura un futuro Papa, poiché l’ava di famiglia, Elisabetta Farnese, aveva avuto tra i suoi antenati Paolo III.

 

Ma il piccolo Ferdinando, che assolutamente non immaginava che sarebbe diventato Re, mostrava una naturale inclinazione per i mestieri manuali: << sarebbe stato molto più a suo agio nel ruolo di mulattiere e di pescatore, di allevatore di mucche e di mandriano [...] Ferdinando, appunto perché manca dei requisiti tipici dei monarchi assoluti del tempo, proprio per quei modi popolari e volgari, si distacca dalla “razza” dei colleghi uomini-dio che conducono il mondo, le potenze del Vecchio Continente. Quali le conseguenze? Notevoli sulla dinamica delle classi, le quali proprio nel corso del “Gran Secolo” entreranno traumaticamente in conflitto >>

 

6. Il giorno in cui Carlo III, non potendo più rimandare gli impegni a Madrid, decise di abdicare ufficialmente in favore di Ferdinando, Tanucci era lì accanto a lui a leggere l’importante documento che il sovrano aveva appena sottoscritto, mentre la regina si asciugava le lacrime di commozione.

 

Il Gran Ciambellano fu incaricato di salire i tre gradini che conducevano al Trono e di porgere a Ferdinando, su un cuscino vellutato, una spada preziosa, quella che Luigi XIV aveva donato al duca d’Anjou, futuro Filippo V, che simboleggiava il potere.

 

L’autore Campolieti ci riferisce che Tanucci << gliela lasciò appena toccare, quindi diede ordine che fosse nuovamente riposta negli stipi del tesoro >>

 

7. gesto che ci fa capire quanto il potente marchese volesse rimarcare il suo ruolo di reggente, esercitato dal 1760 al 1767.Ferdinando era rimasto solo nella grande Reggia, i suoi genitori, suo fratello maggiore Carlo Antonio, le principessine e gran parte delle dame di compagnia, dei paggi e degli scudieri si erano trasferiti lontano, a Madrid.

 

Le giornate a Palazzo dell’erede al trono erano scandite da precisi orari, dalle sette della mattina, quando Ferdinando veniva svegliato, si vestiva e recitava le preghiere, al pranzo del mezzogiorno, alle lezioni pomeridiane di lettura e aritmetica delle quattro, fino a quando, due ore prima del tramonto, arrivava il momento di uscire con la carrozza per andare a pescare, abitudine che manteneva in tutte le stagioni.

 

Si è sempre detto che il principino avesse un cuore generoso e che fosse molto affettuoso nei confronti del suo sfortunato fratello maggiore, Filippo Pasquale, affetto da gravi problemi psichici e felice almeno in quei momenti in cui, nei suoi appartamenti, riceveva le visite del fratellino Ferdinando.

 

Gli anni trascorrevano in fretta e giunse il giorno dell’investitura. Il 12 gennaio 1767 Ferdinando di Borbone, compiuti i sedici anni, divenne re con pieni poteri.

 

Sua promessa sposa era l’Arciduchessa austriaca Maria Giuseppa, ma mentre si organizzava la sontuosa cerimonia e si spedivano gli inviti a nozze, alla fine di giugno di quello stesso anno la giovane arciduchessa si ammalò.

 

Si temeva fosse vaiolo, ma la febbre, dovuta ad un ’ infiammazione alla gola, si risolse in pochi giorni.

 

I preparativi continuarono nei mesi successivi, finché alcuni giorni prima della partenza per Napoli, fissata il 16 ottobre, Maria Giuseppa contrasse il vaiolo che la condusse alla morte, a soli sedici anni, il 15 ottobre 1767.

 

Ferdinando sposò allora la sorella della defunta arciduchessa, Maria Carolina, che a detta di molti era una donna colta e adeguatamente preparata al futuro ruolo di regina.

 

Alcuni resoconti dell’epoca la definiscono spietata, ambiziosa e perciò impaziente, fin dai primi giorni di matrimonio, di godere del suo diritto di entrare a far parte del Consiglio di Stato per occuparsi della politica del Regno di Napoli.

 

Per Maria Carolina la presenza del Tanucci era fastidiosa, lo considerava un uomo invadente, sempre pronto a ribattere ogni provvedimento preso da Ferdinando e, verso la metà degli anni ’70, i loro contrasti divennero insanabili.

 

Tanucci, che aveva sempre incoraggiato Ferdinando a rispettare l’etichetta spagnola e quella religiosità ufficiale così tenacemente sostenuta da Madrid, distogliendolo dalle insistenze della regina asburgica che lo incoraggiava a far parte di una specie di massoneria affermatasi con successo presso la corte austriaca, fu “eliminato” da Maria Carolina, ma pare che Ferdinando avesse tentato di difenderlo rendendosi conto che quel licenziamento appariva fulmineo e, apparentemente, immotivato.

 

All’uscita di scena del marchese toscano, i cui dipartimenti furono consegnati al Marchese della Sambuca, stava per seguire, nell’agosto 1778, l’ingresso a Corte di un nuovo personaggio, destinato a riorganizzare con decisione e rapidità esercito e marina, contribuendo a distaccarli definitivamente dai sistemi spagnoli: l’ufficiale inglese John Acton.

 

Aprendo una piccola parentesi, diciamo che molti furono i toscani che, per vari motivi, furono presenti a Napoli in quegli anni, Tanucci, Giuseppe Breschi e Giuseppe Bracci, incisori, il medico Gatti, colui che sperimentò la vaccinazione antivaiolo, e lo stesso Acton, passato dalla marina lorenese a quella borbonica, ne sono un esempio.

 

A tal proposito si dice che una volta Ferdinando avesse fatto notare al cognato Pietro Leopoldo come il gran numero di toscani a Napoli dimostrasse che forse si stava meglio nel suo regno che in Toscana.

 

Su Ferdinando si sono sempre tramandati vari aneddoti, alcuni riguardanti la sua passione per la caccia e la pesca.

 

Il Re divenne celebre tra la gente del popolo perché, come un napoletano qualsiasi, era legato a rituali scaramantici e, andando a caccia, metteva in bella mostra all’occhiello della giacca una zampa di airone.

 

Pare inoltre che egli temesse seriamente d ‘ imbattersi in alcune figure che nella cultura napoletana si credeva fossero di cattivo augurio, come le vecchie, i preti e il “Munaciello”, una specie di folletto che infestava le dimore.

 

Alcuni studiosi hanno osservato che mentre Carlo III, giudicato più colto e sensibile, pur essendo appassionato di caccia, preferiva dedicarsi ad attività intellettuali, come visitare gli scavi di Ercolano, Ferdinando IV si muoveva invece meglio durante le battute di caccia e nei luoghi frequentati dalla gente comune, la plebe urbana e rurale, spinto da molta più curiosità del suo predecessore nei confronti degli usi e costumi del suo popolo.

 

Lo studioso siciliano Pitrè agli inizi del Novecento scrisse un volume, “Studi di leggende popolari in Sicilia”, che raccoglie parte di quella tradizione orale che tramandava aneddoti su Ferdinando IV e ci racconta che il sovrano, qui fin troppo legato allo stereotipo del Re buono e ben disposto verso il suo prossimo, durante una battuta di caccia si fermò per riposare vicino una capanna.

 

Incuriosito dalla ricotta di un pastore, volle assaggiarla e, in mancanza di una ciotola, ne ricavò una dalla crosta del pezzo di pane che lui gli aveva offerto.

 

Il pastore ricevette in dono dal Re riconoscente dei cucchiaini d’argento che, economicamente, lo sollevarono dalla sua condizione di miserabile.

 

Tornando agli affari di stato, a Ferdinando fu consigliato dal padre Carlo III di liberarsi di John Acton.

 

Il sovrano spagnolo, pur regnando a Madrid, lontano dal figlio, aveva dedotto, dal frenetico susseguirsi della serie di riforme attuate in campo militare nel Regno di Napoli, quanto fosse forte l‘ascendente che questo inglese esercitava sui sovrani di Napoli, addirittura la Regina Maria Carolina sarebbe stata disposta ad affidargli completamente gli affari di stato, ma Ferdinando IV non ascoltò i consigli paterni, né allora né quando, tempo dopo, decise che la “chinea”, tributo di ben settemila scudi d’oro versato annualmente al Papa, dovesse essere eliminata.

 

Abbiamo già accennato alla volontà di Carlo III di dotare la Capitale di edifici rappresentativi, anche Ferdinando volle farlo.

 

Tra i veri e propri “siti” edificati durante il suo Regno vi fu il complesso di Carditello, il “Reale Casino di Carditello”, realizzato da Francesco Collecini nel 1787.

 

Esso fu concepito come un “corpo centrale”, destinato agli appartamenti reali, affiancato da bassi padiglioni destinati a custodire animali e attrezzature agricole, perché lo scopo del sito era appunto essere una specie di azienda agricola in cui si allevavano cavalli e mucche e si producevano burro e formaggi.

 

La decorazione interna dell’edificio centrale fu affidata ad Hackert, anche se i danni del tempo e i traumi provocati dall’uomo (ad esempio durante la rivoluzione napoletana del 1799) hanno danneggiato i brani pittorici.

 

Per fortuna i due bozzetti autografi, raffiguranti la vendemmia e la mietitura, non sono andati perduti e ci hanno svelato che, in abiti contadineschi, furono ritratti gli stessi Ferdinando, Maria Carolina e i loro figli.

 

Ben nota fu inoltre la passione di Ferdinando IV per la colonia dei fabbricanti di seta che aveva fondato a San Leucio, pochi chilometri da Caserta.

 

Di questa istituzione il Re andava orgoglioso e se ne occupava personalmente giorno per giorno.

 

L’innovazione rappresentata da questa Colonia, nata nel 1776, fu il contenuto del “Codice delle Leggi”, promulgato nel 1789 per regolamentare la vita degli abitanti.

 

L’istruzione era obbligatoria, era vietata ogni ingerenza dei genitori nei matrimoni dei figli, il merito era la sola distinzione tra gli individui, ogni lavoratore contribuiva ad una cassa della carità istituita per i vecchi e gli ammalati e si prescriveva che ogni anno i fanciulli e le fanciulle venissero vaccinati contro il vaiolo.

 

Intanto la Francia era scossa dai moti rivoluzionari e molti profughi, giunti a Napoli dopo la caduta della Bastiglia, testimoniavano con i loro racconti ciò che stava accadendo in quella nazione.

 

Gli equilibri internazionali stavano per crollare e la Regina Maria Carolina era preoccupata per la sorte di sua sorella Maria Antonietta.

 

A Napoli il 12 dicembre 1792 giunse una squadra di navi francesi agli ordini dell’ammiraglio Latouche-Tréville per esigere il riconoscimento della Repubblica, proclamata da un paio di mesi.

 

A malincuore, per evitare di rispondere con le armi, Ferdinando IV accettò, ma segretamente stipulò un patto con Londra.

 

Il Regno delle Due Sicilie intervenne schierando seimila soldati al fianco degli Inglesi e degli Spagnoli nella difesa di Tolone, fu sconfitto, ma la battaglia fu un’occasione per consolidare il legame fra Napoli e Londra.

 

Il primo agosto del 1798 i Francesi furono tenuti a bada dai vascelli guidati da Nelson, il quale, sconfiggendo la squadra di Bruyes nella baia di Abukir, bloccò in Egitto il corpo di spedizione di Napoleone.

 

Furono preparate accoglienze trionfali per l’ammiraglio Nelson che stava per rientrare a Napoli.

 

Ferdinando IV aveva in mente il piano di sfidare la Francia, ma era molto titubante.

 

Al contrario Nelson, pieno di entusiasmo, pensava che fosse necessario agire e marciare su Roma per ristabilire il potere temporale e allontanare la minaccia dei Francesi dai confini borbonici.

 

Il Re si decise a farlo, ma fu una catastrofe: le truppe borboniche conquistarono Roma senza difficoltà, ma furono tratte in inganno dalla falsa intenzione dei Francesi di ritirarsi che si tramutò in un attacco di questi ultimi con tutte le forze che rimanevano loro a disposizione.

 

I versi di un poeta popolare definiscono così l’azione di Ferdinando IV a Roma: << il re don Ferdinando/ in pochissimi dì/ venne, vide e fuggì >>

 

8. Intanto i Francesi, guidati dal generale Championnet, si dirigevano rapidamente a Napoli.

 

La città si trasformò in un campo di battaglia con i suoi abitanti, fedeli al Re nonostante li avesse abbandonati al loro destino, che si armavano, assaltavano i forti e si battevano sia contro l’invasore sia contro i giacobini che, dall’interno, gli spianavano la strada, mentre Ferdinando e Maria Carolina, sull’ammiraglia di Nelson, la “Vanguard”, fuggirono a Palermo.

 

La Repubblica sarebbe durata sei mesi, cioè fin quando il cardinale Fabrizio Ruffo, marciando dalla Calabria, non la fece crollare spalleggiato da Nelson che gli garantì la copertura navale.

 

Quel “cardinale guerriero” sosteneva che a ben poco servisse giustiziare i giacobini ribelli, quindi sottoscrisse un trattato col quale si permetteva loro d’imbarcarsi per Tolone, ma quel provvedimento deluse il Re, la Regina, Acton e Nelson, desiderosi di una punizione esemplare.

 

Rifugiato a Palermo, il sovrano visse giorni agitati, sebbene la sconfitta della Repubblica gli restituiva il Trono, egli non si decideva a tornare a Napoli e temeva, una volta rientrato, il confronto con i suoi concittadini infedeli.

 

Progettava di tornare solo quando il trono sarebbe stato di nuovo al sicuro, ancora vivi erano in lui i ricordi degli orrori della Rivoluzione Francese.

 

Il pittore Saverio Della Gatta avrebbe poi raffigurato il “Ritorno di Ferdinando dalla Sicilia dopo il 1799”.

 

Le ragioni del fallimento della Repubblica Partenopea furono molteplici, storici e intellettuali hanno esposto varie teorie, tra queste vi sono quelle dello storico Vincenzo Cuoco, il quale sintetizzò nel suo “Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799” alcune cause: i patrioti napoletani commisero probabilmente l’errore di aver voluto applicare il regime e la Costituzione della Francia ad un popolo diverso per tradizioni, costumi, struttura economica e politica; Cuoco scrive che a Napoli, e in Italia in genere, esistevano “due nazioni diverse” per cultura, linguaggio e costumi, una delle quali era la minoranza, intellettuale e progressista, l’altra era la massa popolare che si muoveva << non per raziocini ma per bisogni >>

 

9. Il 31 gennaio del 1801 tornarono a Napoli l’erede Francesco e la sua famiglia, ma non Ferdinando, per questo il cavaliere Acton dovette promettere ai senatori e ai rappresentanti della classe nobile che presto gli avrebbe riportato il Re in persona.

 

Il sovrano era intanto rimasto solo a Palermo, poiché la sua consorte Maria Carolina era a Vienna con le principesse e Acton era a Napoli con il principe ereditario Francesco.

 

Alcuni hanno scritto che fu quello un periodo spensierato, lontano dai nervosismi della Regina e dalla pedanteria di Acton.

 

Fu nel giugno del 1802 che Ferdinando tornò a Napoli, accolto dalla gioia dei suoi sudditi, mentre a Maria Carolina, rientrata un paio di mesi dopo, non fu manifestata la stessa calorosa accoglienza.

 

Pochi anni dopo, nel 1806, seguì un’altra fuga a Palermo, questa volta il Re raggiunse la Sicilia perché Napoleone, al culmine della sua ascesa, ormai Imperatore a Parigi e Re in Italia, assegnò Napoli al fratello Giuseppe, dopo poco sostituito da Gioacchino Murat.

 

Nella parte continentale del Regno di Napoli si consolidò l’esperienza del decennio francese, mentre in Sicilia ci furono turbolenze e cresceva la tensione con gli alleati d’oltre Manica.

 

I “successori”, diciamo così, di Nelson e di Hamilton erano decisi ad imporre la loro politica e perfino ad esautorare il Re.

 

Questi era stato abbandonato da Acton e viveva ormai lontano anche dalla consorte Maria Carolina, costretta dagli Inglesi a trasferirsi a Vienna perché tentava di opporsi alle loro manovre.

 

A ridare a Ferdinando IV la speranza di rivedere Napoli fu il declino napoleonico, con la disastrosa campagna di Russia e la disfatta di Lipsia, ma proprio mentre il sovrano riacquistava la fiducia nel futuro, fu colpito dal lutto per la morte di Maria Carolina, avvenuta a Vienna.

 

Nel 1815 il Congresso di Vienna riconsegnò il Regno di Napoli a Ferdinando IV, che contemporaneamente era Ferdinando III in Sicilia, e lo nominò Ferdinando I delle Due Sicilie.

 

Il sovrano si avviava ad affrontare gli ultimi dieci anni di vita, la sua morte avvenne il 4 gennaio 1825, anni in cui si trovò a fronteggiare i moti carbonari del 1820, a dover concedere la costituzione e ad avere allo stesso tempo la possibilità di abrogarla affidandosi alle truppe austriache, rimaste poi nel Reame per evitare la diffusione di iniziative rivoluzionarie nei territori delle potenze europee che avevano aderito alla Santa Alleanza.

 

Lo scrittore Campolieti conclude il suo libro, “Il Re Lazzarone”, con una frase che riassume la personalità di questo particolarissimo sovrano: << un altro Ferdinando, vero re e vero padre, così vicino e simile all’ultimo dei suoi sudditi, [Napoli] non l’avrebbe avuto mai più >>

 

10. In questo breve excursus storico ho cercato di riassumere in che modo i due Borbone si siano abituati negli anni a misurarsi con le vicende di questo Regno, il più esteso fra i territori in cui all’epoca era frazionata l’Italia, che pian piano si consolidava e che era composto da ben 22 province: Napoli, Terra di Lavoro, Principato Citeriore, Principato Ulteriore, Basilicata, Capitanata, Terra di Bari, Terra d’Otranto, Calabria Citeriore, 2° Calabria Ulteriore, 1° Calabria Ulteriore, Molise, Abruzzo Citeriore, 2° Abruzzo Ulteriore, 1° Abruzzo Ulteriore, Palermo, Messina, Catania, Girgenti, Noto, Trapani e Caltanissetta.

 

Immaginiamo quanto non sia stato facile per Carlo III e Ferdinando IV, i primi due veri sovrani del finalmente autonomo Regno borbonico, governare una compagine di territori così varia della quale, nei capitoli successivi, esamineremo abiti, costumi ed uniformi dei vari ceti sociali e il loro profilo socio-antropologico.

 

 

 

Capitolo II

 

Abbigliamento delle classi del Regno: costumi popolari; uniformi militari; abiti di corte.

 

 

 

2.1 Costumi popolari

 

Un noto proverbio recita “l’abito non fa il monaco”.

 

Eppure proprio gli abiti indossati dalla popolazione, in una determinata epoca ed in una determinata area geografica, ne disegnano il ritratto: ci forniscono indizi sul tenore di vita dei singoli ceti, sul loro stile, sulle abitudini di persone vissute secoli fa.

 

Nello specifico, i costumi delle classi del Regno di Napoli costituiscono un tesoro prezioso poiché sono il risultato di molteplici influssi, greci, orientali, aragonesi, catalani, francesi, ecc. che, nel corso dei secoli e durante le varie dominazioni, la città ha assorbito e poi rielaborato a modo proprio. 

 

Gli abiti del secolo XVIII testimoniano la ricchezza del patrimonio di storia, arte e tradizioni locali del Sud Italia proprio nel momento in cui, in tutta Europa, si dedica grande attenzione al folclore dei vari paesi.

 

I viaggiatori del Grand Tour e l’élite culturale europea in genere, sono attratti dal Regno di Napoli. Le scoperte di Pompei ed Ercolano, il Vesuvio, le bellezze naturali dei dintorni di Napoli inducono personaggi della cultura internazionale, come Sir William Hamilton e l’Abbé de Saint-Non, a dedicare a questi luoghi importanti pubblicazioni ed ispirano artisti come Hackert a realizzare straordinarie vedute.

 

Il costume, che nel tempo resta la testimonianza del “gusto” di un determinato momento storico, prima venne rappresentato all’interno di questi paesaggi e vedute, poi gradualmente divenne “figurina” che si affrancò dal contesto fino a divenire il soggetto autonomo della rappresentazione. 

 

La raccolta che precede tutte le successive raffigurazioni del costume napoletano è l’opera “Raccolta di varii Vestimenti ed Arti del Regno di Napoli” di Pietro Fabris, pubblicata nel 1773 con dedica ad Hamilton.

 

Questo artista aveva già realizzato vedute, scene di genere, costumi incisi o dipinti e illustrazioni di libri guadagnandosi un posto di rilievo tra gli artisti presenti a Napoli nella seconda metà del Settecento.

 

Con questa serie di tavole volle rappresentare non solo il volgo, ma anche le altre classi sociali in scene di vita quotidiana: all’altezzoso “Uomo delle colline di Posillipo”, nella sua elegante giamberga,

 

1. si oppone la semplicità dell’abbigliamento dei “Pescatori” o del “Verdummaro” o dell ’ ”Aquatoro Napolitano”. Vi sono inoltre la “Donna Pozzolana”, la “Donna dell’Isola d’Ischia”, la “Luciana”, la “Zingara calabrese”, il “Friggitore di Scagliozzi”, lo “Zampognaro” e molti altri personaggi che, anche a distanza di venti, trenta anni, continuarono ad influenzare le raffigurazioni dei costumi popolari. 

 

L’interesse tipicamente illuministico per il costume delle diverse classi sociali si era ormai diffuso in tutta Europa: pubblicazioni sull’argomento uscirono in Francia, Inghilterra ed Austria. 

 

Nel Regno di Napoli, oltre alla raccolta di Fabris, ne fu pubblicata un’altra venti anni dopo, la “Raccolta di Sessanta più belle Vestiture che si costumano nelle provincie del Regno di Napoli”, pubblicata presso Vincenzo Talani e Nicola Gervasi nel 1793, ma il contributo più importante dato alla rappresentazione dei modi di vestire delle popolazioni nelle province del Regno fu sicuramente il reportage iconografico voluto da Ferdinando IV nel 1783. 

 

Antonio Paolucci, Soprintendente per i Beni Artistici e Storici di Firenze, nella presentazione del catalogo di mostra “Napoli-Firenze e ritorno” scrive: <<Nel 1783 Ferdinando IV re di Napoli affidava ai pittori Alessandro D’Anna e Antonio Berotti il compito di documentare i costumi del Regno, le fogge e gli abiti caratteristici delle varie plaghe del suo dominio.

 

Nel clima illuminista e scientista di quegli anni, l’incarico sovrano può essere paragonato alla commissione di una vera e propria campagna fotografica con obiettivi di rilevamento etnografico e di testimonianza civile>>

 

2. Passarono una quindicina d’anni (1785 – 1799) prima che la coppia di pittori D’Anna e Berotti (in seguito diventata Santucci e Berotti), vincitori del concorso indetto per documentare i vari modi di vestire degli abitanti del Regno, completassero il capillare giro di ricognizione nelle varie province del Regno disegnando ed annotando le differenze di vestiario delle varie zone: da Terra di Lavoro alla provincia di Salerno, dal Molise alla Terra di Bari, dall’Abruzzo alla Basilicata, ecc...

 

Nell’Europa illuministica si stava risvegliando un notevole interesse per i vari modi di vestire dei popoli antichi e moderni ed in particolare per i costumi popolari, poco conosciuti e documentati fino ad allora.

 

Il Regno di Napoli era una realtà particolarmente ricca da questo punto di vista, come notò anche J.C. Richard Abbé de Saint-Non: <<Quant aux costumes des Napolitans, ils sont aussi variés que le language >>

 

3. Harold Acton, nel volume “I Borboni di Napoli (1734-1825)”, riferisce che già Carlo III aveva un certo interesse per i costumi, anche se si trattava di quelli del Presepe, che la stessa Regina e le Principessine cucivano e ricamavano per le statuette. 

 

Qualcuno ha attribuito alle inclinazioni “popolari” di Ferdinando IV la sua attenzione per i costumi, affermando che egli nutrisse una vera e propria curiosità per il mondo della plebe urbana e rurale. In parte questo è vero, perché nella società di corte napoletana di fine Settecento l’uso del costume fu incentivato proprio dal sovrano e lui stesso, imitato da diversi nobili del Regno, amava indossare costumi popolari. 

 

L’incarico affidato a D’Anna e Berotti sarebbe stato quindi una specie di “esperimento sociale” di un re che amava interessarsi del suo popolo e sul quale la letteratura si è sbizzarrita a scrivere di tutto e di più.

 

Ancora Harold Acton, sempre nel volume “I Borboni di Napoli (1734-1825)”, affermando che l’unico “esperimento sociale” di Ferdinando IV fu la colonia di S. Leucio, aggiunge: << I suoi nemici lo accusarono di averla fondata per la soddisfazione delle sue brame, dato che aveva un debole per le robuste ragazzotte di campagna >>

 

4. E’ certo che l’indagine svolta per conto suo dai due pittori faceva parte della politica economica e culturale che il sovrano attuò negli anni Ottanta del suo Regno. Influenzato da idee di stampo illuministico, egli aveva fatto realizzare importanti progetti, come la Colonia di San Leucio per la lavorazione della seta, i cui coloni erano stati dotati dal Re di un costume in prezioso tessuto che era elemento aggregante di quella comunità, e come l’azienda agricola di Carditello.

 

Aveva inoltre affidato a Philipp Hackert l’incarico di dipingere i porti del Regno e ad Antonio Rizzi Zannoni quello di eseguire rilevamenti topografici raccolti poi nell’Atlante Geografico del Regno di Napoli; aveva infine ordinato a Giuseppe Maria Galanti un’inchiesta sulle condizioni economiche delle varie province.

 

Quest’ultimo, insigne giurista ed economista ed allievo del filosofo Genovesi, denunciò, attraverso i suoi scritti, la critica condizione economica, sociale, giuridica ed amministrativa in cui versava il Regno di Napoli sul finire del secolo XVIII.Con la sua “Descrizione dello stato antico ed attuale del Contado del Molise” Galanti si era già guadagnato la stima di Ferdinando IV che in seguito gli diede l’incarico di estendere questa sua indagine a tutte le province del Regno al fine di delineare un quadro completo della situazione.

 

Lo studioso intraprese diversi viaggi, raccolse numerosi dati e li inviò al Re in una serie di relazioni scritte.

 

Queste notizie sullo stato dei luoghi e sulle condizioni di vita degli abitanti confluirono nell’opera “Descrizione geografica e politica delle Sicilie” che fu tradotta in francese, tedesco ed inglese perché si comprese l’importanza del suo contenuto: necessità di urgenti riforme nella struttura dello Stato, uguaglianza dei ceti sociali dinanzi alla legge, abolizione di arbitrii e privilegi feudali e rilancio dell’economia.

 

I primi tre tomi dell’opera di Galanti trattano dello stato politico e finanziario del Regno ed il quarto della descrizione della Campania nei suoi particolari storici, fisici e umani, ma è interessante soffermarsi sul capitolo quarto del quinto tomo, dedicato alle Arti e Manifatture.In esso l’autore ci descrive vari problemi legati alla produzione dei costumi: dalle materie prime ai procedimenti di lavorazione, dai costi alle mode, ecc..

 

Galanti osserva che, nonostante a Napoli si fabbrichi una gran varietà di stoffe, da quelle molto semplici a quelle più preziose, come rasi, velluti e damaschi, le manifatture non eguagliano la bellezza di quelle realizzate a Lione e questo perché mancano nel Regno delle scuole, eccezion fatta per la scuola dell’Azienda di educazione, che si trovava nel convento del Carminiello e grazie alla quale si producevano calze raffinate quanto quelle francesi, e per la scuola di S. Leucio che realizzava capolavori in seta.

 

Galanti lamenta inoltre la mediocrità dei lavori in lana, i difetti dei panni prodotti ad Amalfi ed Avellino e ci riferisce che l’unica lana di buona qualità, quella prodotta in Puglia, non viene utilizzata nel Regno ma acquistata da commercianti francesi e veneziani che, a loro volta, la esportano alle altre nazioni.

 

Due osservazioni dell’autore sono importanti: la prima è che sarebbe stata indispensabile la presenza di fabbriche per confezionare gli abiti del popolo in tutte quelle province in cui mancavano, come la Calabria.

 

Queste fabbriche avrebbero permesso che le particolari “fogge del vestire”, diverse in ogni provincia, fossero prodotte sul posto; la seconda è che il Re avrebbe dovuto impiegare capitali per incentivare l’industria manifatturiera e fare in modo che questa diventasse talmente prestigiosa da indurre persino i nobili, che di solito ricercavano sete orientali e stoffe francesi, a preferire i capi confezionati nel Reame a quelli confezionati all’estero.

 

Negli Archivi di Stato di alcune province, Teramo ad esempio, sono conservati verbali di sequestri di tessuti (rotoli di panno e di tela bianca), di semi di piante da fibre tessili (lino, canapa), di pelli (pelli di pecora e pelli di lepre) e di bozzoli di bachi da seta fatti uscire o entrare di contrabbando nelle zone di confine tra il Regno di Napoli e lo Stato Pontificio.

 

I verbali testimoniano l’esistenza della coltivazione di fibre tessili e dell’allevamento dei bachi da seta e dimostrano che c’erano attività di una certa importanza alle quali si devono aggiungere le attività artigianali domestiche, non menzionate, i cui prodotti erano però destinati al solo consumo familiare.

 

L’indagine conoscitiva di Galanti fu di natura giuridico-economica, suffragata dalla propria esperienza personale di avvocato. Anche quella dei pittori D’Anna e Berotti fu un’indagine, una campagna di rilevazione fatta per conto del Re, ma aveva in più un secondo scopo: quei loro disegni e dipinti degli abiti delle varie province sarebbero diventati, nelle mani dei pittori interni della Real Fabbrica,

 

5. decorazioni su porcellana. 

 

Oltre ad essere piccole opere d’arte, questi preziosi lavori ebbero una funzione didattica: divulgare le vere immagini dei costumi del Regno. Inoltre il motivo figurativo dei costumi fu utilizzato anche nel settore specifico dell’incisione.

 

Gli schizzi originali delle vestiture, utilizzati come modello per la produzione della Real Fabbrica della Porcellana, divennero ben presto un “genere” con una propria autonomia ed il Re dispose nel 1794 la trasposizione su rame, dai modelli originali, da eseguirsi presso la Stamperia reale (nella duplice versione di incisione a tutto campo ed incisione di solo contorno destinata alla coloritura) e nel 1795 pose inoltre una privativa sulle stampe uscite da torchi reali per bloccare ogni tentativo di falsificazione affidando l’esclusiva della vendita al mercante Vincenzo Talani.

 

Si ipotizzò che proprio quest’ultimo avesse abusivamente pubblicato nel 1796, con una datazione falsa (1790-93) per sfuggire alle sanzioni, la “Raccolta di Sessanta più belle vestiture che si costumano nelle province del Regno di Napoli”, ma è stato osservato che le immagini utilizzate nella raccolta sono diverse da quelle delle incisioni reali e circolavano già precedentemente al 1795, anno della privativa reale.

 

L’iniziativa del Talani è solo un esempio di quello che accadeva nel corso di quegli anni, durante i quali si pubblicarono altre raccolte, di autori locali o stranieri, di immagini riguardanti i costumi popolari, poiché si doveva soddisfare la richiesta di una committenza desiderosa di riportare in patria ricordi dei luoghi visitati. 

 

Miniature su porcellana, gouaches, incisioni, piccoli pannelli ricamati e costumi in vendita contribuirono insomma a diffondere in Italia (ad esempio in Toscana, dove giunsero 208 gouaches, dono ai Borbone-Lorena) ed in Europa un’immagine ricca di luce e di colore di Napoli e del suo Regno attraverso i variegati abiti della sua popolazione.

 

Si venne a conoscenza, grazie alla diffusione delle immagini ritratte dai due pittori del Re, dei messaggi culturali contenuti nei modi di vestire di tutte le popolazioni, non solo quelle che vivevano in centri ben collegati fra loro e con Napoli, ma anche le altre che, abitando in territori accidentati e poco accessibili ai viaggiatori per mancanza di reti stradali, erano ingiustamente rimaste fino ad allora nell’ombra.

 

Le immagini dimostrano inoltre che le novità culturali in genere, e nel settore dell’abbigliamento in particolare, riuscivano in un modo o nell’altro a penetrare in tutti i territori del Regno, anche in zone faticosamente raggiungibili, perché vi erano persone sempre pronte a recepirle e rielaborarle a modo loro con gli umili mezzi a disposizione.

 

Nonostante la gente comune versasse in uno stato di profonda miseria ed il suo malcontento venisse fuori proprio nel periodo in cui fu effettuata questa campagna di rilevazione, cioè il quindicennio che precedette i moti del 1799, le immagini di questi abiti rivelano modelli curati nei minimi particolari.In tali vestiti non sembra esservi traccia degli stenti lamentati più volte a voce alta, con agitazioni ed insurrezioni, dalle popolazioni e questo per tre motivi.Il primo è che quei costumi popolari non erano semplici indumenti, ma simboli di identità locale e orgoglio di quelle comunità che li trattavano come una ricchezza da proteggere e tramandare, in ambito familiare, di generazione in generazione.

 

Alcune guarnizioni, come merletti o ornamenti d’oro e d’argento, la stessa “tovaglia” o panno da testa damascato, venivano trasmessi da madre a figlia come bene dotale. In questo modo, lo stesso modello poteva perpetuarsi per alcune generazioni prima di subire variazioni.

 

Il secondo motivo è che essi, in contrasto con immagini in cui vi sono donne ritratte a lavorare nei campi o ad eseguire lavori domestici e con immagini in cui alla plebe delle campagne mancano persino le scarpe, sono probabilmente quelli indossati in occasioni festive e cerimoniali: i disegnatori, inviati dal Re in persona nei territori del Reame, preferivano inviare a Napoli immagini dignitose e rassicuranti che provassero le buone condizioni in cui vivevano i sudditi.

 

Il terzo è che fino a tutto il secolo XVIII, le donne delle aristocrazie rurali e delle fasce sociali medie, le artigiane, condividevano con le donne dei gruppi agropastorali lo stesso tradizionale modo di vestire, perciò molti abiti delle popolane ritratte traggono in inganno: queste figure femminili non si possono attribuire con certezza all’uno o all’altro ceto e mascherano le reali condizioni di miseria della popolazione di molte province del Regno.A tutto questo si aggiunga il fatto che spesso i poveri, con amaro umorismo, copiavano i ricchi abiti di corte, come annota Saint-Non descrivendo gli abiti da festa del popolo: << sont toujours composés de la friperie des galas de la cour : aussi voit-on souvent le dimanche un homme du peuple en habit fond d’or, avec une veste ou une culotte de drap bleu , des bas de soie , le filet ou le petit bonnet de coton blanc à la tete >>

 

6. Vi sono invece personaggi che si possono identificare con sicurezza, come i contadini, poiché accanto a loro si notano attrezzi agricoli, quali zappa, vanga, falce fienaia, ecc., e anche fasci di spighe, fasci d’erba tagliata e persino specifici copricapi, come fazzoletti legati alla nuca per detergere il sudore, cuffie e cappelli usati per proteggersi dai raggi solari.

 

Altri ancora sono identificabili come pastori, come venditori ambulanti di mozzarelle, di ciliege, di granaglie, di ciambelle, di agli, ecc.; come tessitrici, vasaie, portatrici d’acqua e lavandaie. 

 

Le figure, accompagnate dalla didascalia con il nome della località cui l’abito fa riferimento, si presentano secondo varie tipologie: la sola immagine femminile, solo quella maschile o entrambe nello stesso foglio; in altre, bambini e cani si affiancano ai personaggi maschili e femminili e panorami di interi paesi vi fanno da sfondo, come fossero cartoline.

 

Pur essendoci differenze tra un territorio e l’altro, nei costumi vi sono elementi comuni a tutte le province e a tutte le classi sociali, soprattutto nell’abbigliamento femminile.

 

Uno di questi è il copricapo.Esso è quasi sempre presente, sia nelle figure femminili che in quelle maschili, perché, oltre ad essere elemento d’identità locale, arricchito da trine, fiori e nastri, è anche indispensabile alle popolazioni del Regno condizionate dal clima dell’Italia Meridionale e costrette a ripararsi dal caldo sole estivo. 

 

Il copricapo è inoltre “segno” che indica lo stato sociale della donna: in alcune zone veniva portato “piegato in quattro” da chi era nubile, e “a turbante” da chi era sposata.

 

Alcune donne indossavano un ampio fazzoletto trinato, talvolta lungo fino alla vita; altre legavano semplicemente un panno intorno al capo; altre ancora usavano i propri capelli, racchiusi in trecce raccolte intorno alla testa come manici d’anfora, come ampio appoggio per due fazzoletti piegati “a tegola” e tenuti da spilloni.

 

Dei copricapi erano vere e proprie acconciature, come quelle delle donne di Sessa Aurunca che prevedevano capelli racchiusi in trecce raccolte ai due lati della testa, che coprivano in parte fronte e tempie, al centro delle quali veniva appoggiata una striscia di merletto, piegata in due a forma di “V” fin sulla fronte.

 

Come i copricapi, così i corsetti, le giacche, le camicie e le gonne variavano da zona a zona per tipologia, stoffe e dimensioni.La maggior parte delle gonne, tessute in panno di lana o con fili misti di cotone bianco e di lana colorata, erano di una tinta scura (blu, marrone, viola, nero), alcune altre di una tinta più chiara, ottenuta con succhi vegetali estratti dalle foglie della pianta di sorbo, dalle bucce delle albicocche, o dalle foglie delle piante di carciofo.

 

Le contadine dovevano provvedere da sé al necessario per creare abiti: recuperare la lana alla filatura, alla tessitura ed alla tintura della stessa e ricorrere agli espedienti più originali per ottenere determinati colori, come la fuliggine dei camini per il nero e il mallo delle noci per il grigio.

 

Le donne appartenenti alle fasce più abbienti potevano permettersi di tingere la tela per le gonne in casa, con prodotti acquistati, o di inviarle alle tintorie o di importare direttamente tessuti come la tela di Cambrai, il velluto, la saja imperiale ed i taffetas. 

 

Le gonne presentavano talvolta applicazioni di fasce policrome o galloni

 

7. (dei quali splendidi esemplari venivano prodotti dalle seterie di San Leucio in una vasta varietà di disegni) accanto al bordo inferiore ed erano corredate di una sopra-gonna, spesso in tessuto rigido, di un grembiule dalle diverse forme (arricciato, rettangolare, triangolare, decorato con fasce orizzontali, ecc...) e di due tipi di sottovesti, in tela per l’estate e in lana lavorata all’uncinetto per l’inverno.

 

Le donne benestanti indossavano più gonne sovrapposte e per distinguersi dalle altre indossavano sopra di esse una giacca di una certa lunghezza.

 

Un altro indumento comune a tutte le figure femminili è la camicia: essa era di cotone bianco, di lino o di canapa e poteva essere ricoperta da un busto, per lo più nero, chiuso da lacci o da un vero e proprio corsetto con stecche.

 

Spesso a quest’ultimo erano legate con nastri o fettucce maniche a sé stanti, elemento tipico dell’abbigliamento tradizionale settecentesco, che potevano essere sfilate per dare libertà di movimento durante i lavori domestici.

 

Diffuso era l’uso di indossare orecchini di varie forme ( a cerchio, a pendenti, ecc..) e collane sia in oro a grani, di varia lunghezza e dotate talvolta di croci o ciondoli circolari, sia di corallo ( i cui grani variavano di dimensioni a seconda delle possibilità economiche) ad uno o più giri e spesso anche esse dotate di una croce o di un ciondolo in oro.

 

Le calze erano lavorate ai ferri, anche se in alcuni centri ancora si continuavano ad usare modelli realizzati in pezza, con cucitura posteriore.

 

Le scarpe di cuoio grossolano, con bocchetta rovesciata o con fibbia e simili a quelle maschili, venivano indossate durante il lavoro, quelle in capretto durante le feste.

 

Tra tanti visitatori del Regno, vi furono alcuni che trovarono di cattivo gusto l’abbigliamento settecentesco delle donne del popolo e affidarono alla carta le loro impressioni. In appunti presi durante un viaggio del 1793 nel Regno di Napoli, l’autore drammatico spagnolo Leandro Fernàndez de Moratìn scrisse di loro: << Molto brutte [ ... ] son ricoperte di galloni d’oro, di cui adornano le loro giacche di velluto e le loro sottane e grembiuli di seta: portano per lo più una cuffia molto piccola in cui raccolgono i capelli, bordata di oro, con grandi pendenti e collane di corallo, perline o perle >>

 

8. Al contrario altri, come la studiosa Ada Trombetta, hanno osservato che proprio quell’uso eccessivo di monili, guarnizioni ed accessori, che il Moratìn tanto disprezzava, svelava l ’ aspirazione delle donne del popolo ad una vita migliore, quasi come se, sfoggiandoli, avessero voluto dimostrare che le povere condizioni in cui versavano non erano riuscite né a demoralizzarle, né ad imbruttirle e né ad impedire loro di affermare la propria identità attraverso quegli abiti e quei gioielli.

 

L ’ abbigliamento maschile degli abitanti delle province del Regno, non diversamente da quello diffuso nel resto delle campagne italiane alla fine del Settecento, era caratterizzato da questi elementi: cappello, camicia, giacca, panciotto, pantaloni, cintura, calze e scarpe.

 

I calzoni erano fermati in vita da una fascia e arrivavano alle ginocchia dove una cinta terminante a fiocchi teneva ben tese le lunghe calze chiare.

 

Gli uomini indossavano camicie che avevano diverse forme, appena sopra di esse portavano un panciotto aperto sulla parte anteriore e su di esso una giacca con ampi paramani.

 

La giacca maschile, giamberga, era l’elemento comune a tutti i centri, poteva variare in lunghezza ed era caratterizzata da bottoni neri ed asole dorate.In inverno, sopra la giacca, era indispensabile la cappa, un caldo mantello in lana.

 

La testa era coperta da cappelli a falda larga, sotto i quali, soprattutto d’estate, si scorgevano cuffie o lembi di fazzoletti bianchi indossati perché durante il lavoro nei campi venisse assorbito il sudore e non si impregnasse il cappello.

 

Alcuni, come il filosofo inglese George Berkeley, ci hanno lasciato descrizioni minuziose di costumi maschili in uso presso determinate popolazioni del Regno.

 

La sua immaginazione fu colpita dagli uomini che abitavano l’isola d’Ischia, il cui costume era caratterizzato da un berretto di lana blu, una camicia, un paio di brache lunghe e, nella stagione fredda, giubbetti e calzoni di lana.

 

Ci descrive il loro abbigliamento nel suo “Viaggio in Italia” del 1717: << La biancheria degli ischitani è tutta di canapa [...] il costume consiste in una berretta di lana, una camicia e un paio di mutande lunghe; quando fa freddo giubba e calzoni al ginocchio di lana. Portano su un fianco un pugnale decorativo, a lama larga e con la punta ricurva con la quale spesso si feriscono [...].

 

Gli ornamenti femminili sono dei grandi cerchi d’oro alle orecchie e, per le sposate, larghi anelli d’oro con pietre false alle dita, ma il principale segno di eleganza è un grembiule coloratissimo e ricamato in lamé [...] in questo modo si acconciano solo nei giorni di festa >>

 

9. A richiamare la descrizione di Berkeley c’è una delle tavole realizzate da Santucci e Berotti che raffigura una donna ed un bambino ischitani con accanto dei ventagli di rafia, lavori in paglia tipici dell’isola.

 

Seduto su di un muretto, il bambino veste pantaloni stretti al ginocchio, camiciola di canapa e giubba di velluto senza maniche. La donna è in piedi e di profilo, ha il capo coperto da una “magnosa”, tovaglia di tela di lino bianchissima che le nasconde delle “navette”, cioè degli orecchini con fili d’oro o d’argento e pendenti di perle; indossa una gonna a piccole pieghe, una giubba ricamata in velluto ed un grembiule lavorato ai bordi.

 

Ai piedi porta scarpe simili a zoccoli o pantofole con “guigge” d’oro e seta arabescate, cioè strisce per allacciare le calzature.

 

I costumi popolari, frutti della cultura dei luoghi a cui appartengono, non sono un qualcosa di statico, anzi mutano nel tempo, influenzati dall’evoluzione della moda e della società, sebbene questo loro cambiamento sia lento e graduale, poiché il costume conserva dignità e prestigio tramandandosi di generazione in generazione così come è, mentre i comuni abiti soggetti alla moda per essere apprezzati non devono somigliare a quelli che li hanno preceduti, ma rinnovarsi rapidamente.

 

Inoltre è la collettività, fortemente legata alle tradizioni, a stabilire cosa si possa o non si possa cambiare di un costume popolare, mentre l’abito alla moda dipende esclusivamente dalla volontà del singolo stilista che lo crea.

 

Determinati costumi popolari sono poi abbinati, nell’immaginario collettivo, a determinate figure, come nel caso dell’austero pastrano in pelle di pecora o montone, i coturni di pelle alle caviglie e le grosse scarpe, indossati dai briganti nel Settecento, che hanno contribuito a crearne il personaggio.

 

All’inizio di questo paragrafo si sottolineava il fatto che i costumi popolari raffigurati dai pittori di Ferdinando IV non sono abiti indossati quotidianamente dagli abitanti del Regno, ma costumi tenuti da parte per le occasioni: feste e cerimonie.

 

Una di queste particolari occasioni era il Carnevale.Il periodo di Carlo III e di Tanucci era stato per il Carnevale un’epoca di austerità, durato fino al 1773, in cui molti divieti avevano limitato le attività carnevalesche della corte e dell’aristocrazia.

 

Quando non vi fu più l’influenza di Tanucci a corte, nel 1774 il Carnevale s’impose nuovamente per le strade e nelle case e alle pubbliche iniziative, come le sfilate dei carri in via Toledo, le giostre, i caroselli e l’allestimento delle “Cuccagne”, si aggiunsero numerose feste reali.

 

Nei secoli XVII–XVIII il Carnevale fu soprattutto la festa della corte e dell’aristocrazia.Dovrà giungere la fine del XVIII secolo perché gli “Avvisi” ufficiali del Regno diano risalto alla celebrazione del Carnevale Popolare.

 

Prima che questo accadesse, già i viaggiatori stranieri, quasi snobbando la classe dirigente del Regno, volsero la loro attenzione agli usi e costumi del popolo e soprattutto agli abiti indossati dalle classi popolari durante questa festa.

 

La nobiltà preferiva i veglioni ed i balli nelle case dei nobili durante i quali poter mettere in evidenza i propri abiti sontuosi, mentre le buffe maschere carnevalesche che sfilavano nelle strade di Napoli servivano al popolo per beffeggiare l’aristocrazia, il ceto delle corporazioni e dei mestieri e la stessa plebe.Le maschere più caratteristiche erano: La vecchia, Lo spagnolo, Il medico, Il cavadenti, Pascalotto, Don Nicola, Il paglietta calabrese e Giangurgolo.La Vecchia del Carnevale era colei che portava il celebre Pulcinella a cavallo sulla sua schiena e, per dare l’impressione che lui si trovasse in questa posizione, si ricorreva ad uno stratagemma: all’abito bianco del popolano che interpretava Pulcinella si sovrapponeva una gonna lunga e scura ed all’altezza del suo stomaco si sistemavano la testa e la parte superiore del busto di una donna anziana, entrambi fatti di paglia, con braccia anch’esse false, che fingevano di reggere le gambe spalancate, in paglia, di Pulcinella.

 

Lo Spagnolo era invece un uomo vestito con mantelletta, cappello piumato, e merletti sulle scarpe.

 

Una delle maschere più note era quella del Medico: giamberga di colore verde carico, lunga fino ai piedi, larga e piena di ritagli d’argento appesi alle falde, alle maniche ed al bavero e calzoni corti.

 

In testa aveva una parrucca di carta bianca e rossa ed infine un unico occhiale grandissimo.

 

Il Cavadenti era una maschera affine a quella del Medico: indossava un vecchio e sbiadito frac, aveva sul capo un sudicio cappello a tre punte e sul naso un paio di mastodontiche lenti affumicate.Pascalotto era il personaggio che apriva il Carnevale: un uomo vestito con abiti da donna, con finti seni procaci ed il viso tinto di minio che lo rendeva rosso come il fuoco.

 

Era armato di un tamburello e cantava e ballava in strada.Il Don Nicola entrò a far parte del Carnevale Napoletano nel Settecento. In testa indossava il tricorno, cappello a tre punte, gallonato da un nastro nero con fiocchetti a ciascuna delle punte, che poggiava su una parrucca di stoppa.

 

Portava gli occhiali tondi ricavati da una buccia d’arancia e la sua camicia aveva il colletto a vela, grande ed appuntito che fuoriusciva da un panciotto fiorato, sopra al quale aveva una giamberga arabescata.

 

I suoi pantaloni, secondo l’uso settecentesco, arrivavano al ginocchio e le scarpe avevano una grossa fibbia.

 

Egli rappresentava la figura dell’avvocato e quando passeggiava per le strade di Napoli, recitando filastrocche, era accompagnato da un servitore in livrea con ombrello e sacca da viaggio.

 

Una specie di antenato del Don Nicola è il Paglietta Calabrese.

 

Era una parodia dell’uomo di legge o dello studente di legge, in particolare dello studente calabrese.

 

Tipica dell’epoca era infatti la satira nei confronti dei provinciali: nelle canzoni del Carnevale delle Corporazioni si prendeva di mira il misero pasto degli studenti calabresi che frequentavano l’Università di Napoli.

 

Il calabrese veniva definito “paglietta”, cioè avvocaticchio, e considerato un provinciale tonto che, spinto dalla fame, chiedeva ai farenari napoletani di poter partecipare al carnevalesco “saccheggio del pane”.

 

Il suo abbigliamento era simile a quello del Don Nicola: giamberga, cappello a tre punte, occhiali, pantaloni al ginocchio e scarpe con grossa fibbia.Maschera tipica della Commedia dell’Arte era il Giangurgolo, il cui nome derivava dall’unione di “Gianni” e “gorgo”, cioè ghiotto.

 

Si trattava anche questa volta di una parodia dei calabresi ed il personaggio era contraddistinto da un cappello a corno, reso buffo dalla mancanza di falda, da una maschera rossa che gli copriva il naso e la fronte, da corpetto, camicia, brache a liste rosse e gialle e spada lunga.

 

Questo tipo di abbigliamento faceva pensare a quello di un capitano dell’esercito spagnolo, ma di estrazione periferica, gradasso e megalomane.

 

Originali erano poi le maschere ispirate ai popoli orientali: nel 1774 ci fu a Napoli un imponente ballo in maschera nel quale venne allestito un carro trionfale ottomano.

 

I suonatori, turco-anatolici e mori, erano guidati da un personaggio particolare il “Metherbasi”, con la sua mazza di comando, una lunga sopravveste in seta gallonata in oro, il caratteristico turbante sul capo e l’immancabile sciabola.

 

Belle erano anche le maschere ispirate agli abiti delle orientali, queste fanciulle dai lineamenti fini e le acconciature ricercate, ingioiellate e munite di “canciaro”, in ottone e pendente da una catenella, arma somigliante a preziosi pugnali con lama turca facenti parte dell’armeria di Ferdinando IV e riprodotti dalla Real Fabbrica in occasione delle mascherate.

 

L’ “Odalisca” era forse la maschera femminile, ispirata all’Oriente, più nota, caratterizzata da vesti di seta racchiuse da un ampio e rigonfio manto, con i capelli raccolti all’indietro e solo qualche ciocca ondulata libera di ricadere sul collo, indossava ai piedi preziosi sandali infradito.

 

Attraverso i costumi, siano essi vestiti di tutti i giorni o indossati in particolari occasioni o maschere indossate durante le feste, il popolo esprimeva se stesso.

 

Fonte importantissima a cui attingere per giudicare questa varietà di abiti degli abitanti del Regno è sicuramente il Presepe Napoletano in cui, in scala ridotta, sono riprodotti i personaggi e i loro indumenti che, a seconda delle loro diverse caratteristiche, contraddistinguevano gli appartenenti ai diversi ceti della società napoletana settecentesca.

 

Prima del XVII secolo, queste statuine erano rigide, poi furono utilizzati esemplari con giunture a snodo per tutte le articolazioni delle figure in legno fino a giungere agli inizi del Settecento quando alle teste di legno si sostituirono le testine modellate in terracotta.

 

Il Presepe era quindi una consuetudine che a Napoli aveva già una sua antica tradizione, ma chi contribuì alla sua diffusione fu Carlo III, a sua volta contagiato dalla passione per le statuine di Padre Rocco, un domenicano, figura religiosa che alimentava con decisione lo spirito di devozione del sovrano e che fu un prezioso intermediario fra il Re e il popolo.

 

Si racconta che il religioso, poco prima di Natale, girasse per i negozi degli scultori e degli artigiani per giudicare il loro lavoro e dare loro consigli.

 

Con l’avvento di Carlo di Borbone la produzione presepiale, già forte di una solida tradizione artigiana, entrò nella sua fase di massimo splendore perché durante il suo regno le arti subirono un vigoroso impulso, in più al sovrano piacque a tal punto l’usanza del Presepe che in seguito volle introdurla in Spagna e si dice che egli stesso, lavorando la creta, modellasse delle statuine.

 

L’aristocrazia napoletana, seguendo l’esempio del Re, introdusse il Presepe nei propri sontuosi palazzi contribuendo ad arricchirlo in splendore e varietà. In particolare, alcune famiglie dell’alta aristocrazia affidavano agli artisti la formazione dei presepi e lo stesso Carlo III incaricò il pittore Nicola Rossi di occuparsi della scenografia del suo Presepe.

 

Per essere considerato completo, il Presepe doveva contenere tre ambientazioni: quella dell’Annunciazione, quella della Natività e quella della Taverna.

 

Si faceva somigliare la Palestina ad un paesaggio napoletano e nelle varie scene c’erano figurine vestite con i costumi del Settecento, eccetto la Beata Vergine, San Giuseppe e gli Angeli che portavano vestiti tradizionali.

 

I Re Magi indossavano lunghi mantelli assai simili a quelli dei cavalieri di San Gennaro ed i loro seguiti erano vestiti con abiti che, nelle intenzioni di chi li aveva realizzati, dovevano somigliare ai costumi dell’Africa e dell’Asia, mentre contadini e pastori erano vestiti con abiti da festa dell’isola d’Ischia, di Procida e di altre località del Regno.

 

Il racconto evangelico si arricchiva così di personaggi prettamente napoletani, presi dalla vita di tutti i giorni: dalla castagnara alla zingara, vestita di una semplice camicia in tela bianca e di una misera veste in panno azzurro; dal cieco al macellaio, dal mendicante, vestito solo di pantaloni laceri in panno, all’arrotino.

 

I semplici abiti di questi popolani contrastavano con la ricchezza delle stoffe orientali degli abiti dei Re Magi.

 

Le statuine di questi ultimi erano infatti vestite con ricchi manti in seta colorata, con ricami e frange in oro, su cappotti in seta foderati, ornati da ricchi galloni e maniche ricamate con merletti; i Re indossavano inoltre ricche casacche da viaggio, le giornee, interamente ricamate, brache in seta, calze, che potevano essere rigate, stivali in pelle chiusi da lacci e sciabole.

 

Tra coloro che confezionarono questi piccoli vestiti ci furono Matteo e Giovanni Ferri che s’ispirarono ai costumi di Terra di Lavoro, della Basilicata, dell’Abruzzo, della Calabria e di Procida e che ne curarono anche i più piccoli particolari.

 

Il costume femminile procidano, ad esempio, richiedeva che la statuina fosse vestita con una camicia bianca con trine, un corpetto in laminato argentato con galloni, una gonna in seta verde con bordo rosso, un grembiule bianco con frange in oro, un cappotto in seta verde con galloni argentati e bottoni in argento ed infine orecchini in oro.

 

Una moltitudine di argentieri, costruttori di strumenti musicali ed artigiani, compresi quelli di Vietri, si occupò quindi di realizzare piccoli accessori come minuscole brocche, piatti e vasi decorati secondo la migliore tradizione delle singole scuole.

 

Persino la frutta in cera e le verdure impegnarono singoli artisti.Per tutto il Settecento e fino alla metà del secolo successivo, la tradizione presepiale continuò a mantenersi viva.

 

Fra gli allestimenti presepiali settecenteschi più noti vi è il Presepe dei duchi Diego e Giovanna Battista Aragona Pignatelli di Monteleone che acquistò importanza dopo essere stato visitato dal viceré e dopo che la Gazzetta napoletana gli dedicò un articolo il 3 gennaio 1731, nel quale si faceva riferimento soprattutto alle sue scenografie, curate dal pittore paesaggista Michele Pagano, ai raffinati accessori delle statuine, eseguiti dall’orefice di corte Ignazio Imparato ed alle loro caratteristiche vestiture. 

 

Tra gli estimatori del Presepe vi furono anche Ferdinando IV e sua moglie la regina Carolina che ne fecero allestire diversi: a Caserta, a San Leucio e a Portici, dove nel 1771 ne fu eretto uno talmente bello da essere definito “superbo” dalla Gazzetta di Napoli.

 

Inoltre il Re, per rendere ancora più ricchi i suoi apparati presepiali, si servì di scenografi e pittori di corte, come Vincenzo Re e Antonio Joli e nel 1784 commissionò al celebre scultore Francesco Celebrano una serie di “pastori” e chiese che fossero vestiti con i costumi popolari del Regno.

 

Queste statuine furono rivestite con particolare cura, rispettando tutte le caratteristiche dell’abbigliamento degli abitanti del Regno.

 

Con attenzione furono scelti colori, stoffe, guarnizioni, modelli, monili (anellini, collanine, orecchini che, a seconda della loro preziosità, indicavano lo status economico dell’individuo) e perfino accessori (panierini con cibarie o frutta tipiche dei luoghi di provenienza dei popolani modellati in terracotta policromata; strumenti musicali, coltelli, pipe, bastoni, ceramiche, ecc.).

 

L’attenzione particolare dedicata ai monili dava la possibilità, a chi osservava quelle statuine, di farsi un’idea sull’oreficeria del Settecento nel Regno di Napoli, in quei piccoli capolavori c’erano influssi di diverse aree geografiche, prima fra tutte quella spagnola, ma a Napoli e dintorni si diffuse la produzione di gioielli in pasta di vetro, quasi una “risposta” delle donne appartenenti ai ceti meno abbienti ai gioielli in diamanti indossati dalle nobili a corte.

 

La società rappresentata nel Presepe era quindi varia, vi erano campagnoli, popolani, rustici, mendicanti, borghesi, mercanti, bottegai, uomini, donne e bambini della città, della campagna, dei casali e anche delle isole.

 

Ne è un esempio una delle statuine di Celebrano, realizzata per Ferdinando IV, raffigurante un’isolana, una “Giovane procidana”, il cui abbigliamento è caratterizzato da un bustino in seta bianca laminata di argento, da un corpetto in seta gialla laminata di argento, dalla gonna e dal grembiule, entrambi in seta operata, da una zimarra

 

10.  foderata ed una camicia in lino con polsi e collo orlati di merletto.Sempre di Celebrano è una statuina che raffigura un uomo con un’arpa, il “Suonatore di arpa di Viggiano”, il cui abbigliamento è quello tipico dei suonatori che provenivano dalle bande musicali di piccoli centri, come ad esempio Viggiano, ma erano attivi a Napoli nel Settecento: la giacca, il pantalone ed il mantello sono di canapa, il gilet di seta a coste sottili, la camicia e le calze di lino, le ciocie,

 

11. il berretto, la borsa e la cintura in pelle.

 

L’arpa è un capolavoro in miniatura, fatto di mogano, avorio, madreperla e budella.

 

Tra le figure tipiche del Presepe troviamo i Georgiani, vestiti con giubbe in seta, galloni in oro, cinture in seta con ricami in oro, brache in seta, talvolta con motivo a quadretti, cappotti con guarnizioni con galloni d’oro e calze in seta.

 

Gli accessori tipici del loro abbigliamento, e che ritroviamo sulle statuine che li raffigurano, sono: fascia in seta, con ricami e frange in oro, e scimitarre12 in metallo.

 

Questi Georgiani venivano quasi considerati personaggi fantastici, la cui comparsa era seguita da schiere di servitori, portantini e valletti.

 

In effetti tutto questo fasto era consuetudine presso le corti orientali e per realizzare i sontuosi abiti delle statuine che li raffigurano, e tutto il loro seguito, alcuni artisti s’ispirarono ad una cerimonia ufficiale tenutasi a Napoli nel 1741, a suggello delle trattative commerciali tra Carlo di Borbone ed il mondo orientale, e raffigurata in un dipinto di Giuseppe Bonito, conservato al Prado, a Madrid.

 

Questi ci ha lasciato anche alcuni disegni, studi preparatori per le figure che compaiono nel dipinto, inventariati presso la Società Napoletana di Storia Patria, che raffigurano dignitari turchi al seguito dell’Ambasciatore Hagi Hussein Effendi, inviato del sultano, che appunto visitò Napoli nel 1741.

 

In quell’occasione fu organizzato un corteo in onore degli ambasciatori turchi e tripolitani e nelle pagine de “Il Regno di Napoli al tempo di Carlo di Borbone”, di Schipa, leggiamo in proposito che << si videro passeggiare per le vie di Napoli i componenti di un’ambasciata turca, di un’ambasciata tripolina ne’ loro pittoreschi vestiti; se ne seppero gli strani gusti, i singolari costumi. Quel bagliore di metalli e di colori, quelle novità di persone e di cose potean riguardarsi come altrettante prove della nuova potenza del nostro paese >>.

 

13. Queste descrizioni di stoffe lussuose e bagliori di metalli preziosi si rispecchiano nei ritratti di questi personaggi, eseguiti da Bonito, in cui i dignitari turchi indossano luccicanti monili, un ampio mantello ed un vistoso turbante con delle piume. Immaginiamo quanto siano importanti queste raccolte presepiali borboniche, testimonianze della varia umanità che popolava il Regno di Napoli nel Settecento, ma soprattutto fonti a cui attingere per apprendere quali fossero gli abiti e gli usi sia dei regnicoli che degli stranieri che in quegli anni hanno reso omaggio a Napoli.

 

Nel 1799 Ferdinando IV, consapevole della bellezza e dell ’ importanza delle statuine, in fuga a Palermo le avrebbe portate con sé, ma nel tumulto di quei giorni il grosso della raccolta andò disperso e solo una piccola parte di essa arrivò in Sicilia.

 

Dopo la restaurazione, Ferdinando cercò di rimettere insieme la sua raccolta e fece in più nuovi acquisti, come 150 figure, numerosi animali e vari accessori.

 

Anche dopo la sua morte, quando gli succederà al trono suo figlio, col nome di Francesco I, il Presepe reale continuerà ad arricchirsi ed essendo ormai morto Francesco Celebrano, il nuovo sovrano incaricò Antonio Celebrano, figlio del defunto pittore, di occuparsi dell’acquisto di altri pastori.

 

In seguito anche Ferdinando II ebbe una sua raccolta di pastori e ogni anno fece montare nella Reggia di Caserta un grande presepe che veniva esposto ai dignitari di Corte ed al popolo e l’allestimento più noto fu quello del 1844.

 

Negli anni, tutte le raccolte presepiali borboniche sono state riordinate, inventariate ed in piccola parte restaurate.

 

Molte statuine raffiguranti personaggi del ‘700, conservate a Napoli, nel Museo di San Martino o appartenenti a collezionisti privati, sono talmente curate che attraverso il loro abbigliamento si può risalire con certezza alla provincia del Regno a cui appartengono: l’uso di certi dettagli, come colori, motivi decorativi ed ornamenti precisi, rimanda ad una determinata comunità sociale, linguistica e culturale.

 

E’ il caso di una statuina, appartenente ad una collezione privata, che raffigura una giovinetta che indossa una gonna azzurra profilata da galloncini d’oro sulla quale è sovrapposto un grembiule in tela finissima bianca, con fiori ricamati tono su tono, un corsetto in broccato

 

14. annodato con lacci e maniche in raso, annodate attraverso nastrini rosa.

 

E’ un costume popolare che s’ispira agli abiti contadineschi, ma che si discosta dallo stereotipo della “pacchiana” ed era indossato dalle donne di Napoli che, influenzate da una moda nata in Francia, erano solite indossare questo tipo di abiti, simili a quelli delle contadine, durante le gite in campagna.

 

Qualcuno ha interpretato questo “travestimento” come un modo per gli abitanti di Napoli, sia appartenenti al ceto medio che alle classi più elevate, di evadere dai ritmi della città vestendosi come villici ed assaporando la tranquillità di qualche giorno trascorso in campagna.

 

 La stessa Famiglia Reale venne ritratta in abiti campestri da Angelica Kauffmann nel 1783 e da J. Philip Hackert nei due bozzetti, “La mietitura” e “La vendemmia”, per gli affreschi del Casino Reale di Carditello nel 1791.

 

Opere autografe dell’artista, questi due bozzetti raffiguranti due tra le attività agricole più comuni delle classi rurali, la mietitura e la vendemmia appunto, testimoniano l’interesse che Ferdinando IV nutriva nei confronti delle tradizioni popolari e dei costumi del suo Regno.

 

I coniugi reali Ferdinando e Maria Carolina ed i loro figli indossano infatti abiti da contadini, caratterizzati dai tipici cappelli a falda larga, dai panciotti, dai lunghi veli copricapo e dai grembiuli.

 

Il Re, la moglie e i figli sono ritratti con i costumi di Terra di Lavoro, nel primo dipinto il sovrano, con a lato due cani da caccia e con le braccia incrociate poggiate ad un bastone, rivolge lo sguardo alla consorte che è seduta su covoni di grano.

 

Nel secondo dipinto protagonisti sono solo i figli del Re, ritratti fra un carro-botte e contornati da buoi in libertà e da una pecora, mentre in alto, quasi ad incorniciare la scena, vi sono tralci d ’ uva che si adagiano come festoni tra i rami degli alberi.

 

Al di là di questi “travestimenti” dei nobili, vi erano ovviamente i veri e propri rustici, che nella vita di tutti i giorni si dedicavano con energia e vitalità alle operazioni di raccolta dei frutti della terra nelle campagne del Regno e che erano immancabili nel Presepe, le cui statuine ce li raffigurano con piedi nudi e capo coperto, vestiti con panciotti in tela con lacci, cinture in pelle con fibbia, pantaloni di panno, giacche e borse in pelle e con un po’ di immaginazione ci sembra di vederli in mezzo ai campi che si scambiano parole scherzosamente oscene ed aggressive ad alta voce, la famosa “alluccata”, consuetudine molto diffusa all’epoca

 

.Un altro personaggio tipico della città di Napoli e presente nel Presepe è il “Mangiatore di Maccheroni”.

 

Una statuina che ne raffigura uno è conservata nel Museo di San Martino a Napoli e l’artista che l’ha creata si è forse ispirato al “Napolitan mangia Macaroni”, facente parte della “Raccolta di Varii Vestimenti ed Arti del Regno di Napoli” di Fabris.

 

Questo personaggio, vestito con calzoni e giacca laceri e rattoppati, era conosciuto persino dai viaggiatori, come Joseph Gorani che ne parlò in una sua opera stampata a Parigi nel 1793: << Un uomo del popolo va da un venditore di maccheroni, si fa dare un piatto di legno di pasta ben bollente sulla quale ha aggiunto del formaggio grattugiato, prende i maccheroni con le mani e li attorciglia con un gioco di destrezza che gli stranieri sanno raramente imitare >>

 

15. A Napoli, e nelle varie province del Regno, c’era poi tutto un mondo di miserabili, diseredati e deformi che è presente anche nel Presepe, soprattutto quello del secondo Settecento, poiché il Bambino Gesù, dalla sua grotta, vede ed accoglie tutti, anche l’umanità derelitta dei deformi, dei malati, degli esclusi. Personaggi come “Il Guercio”, “Lo Zoppo”, “La Zingara”, “Il Mendicante” sono ben raffigurati nelle statuine e perfettamente inseriti nello scenario del Presepe, può trattarsi di gente comune, di pastori con evidenti anomalie fisiche, di nomadi dediti al commercio ambulante, di nani, ecc.

 

Nel rappresentare questi soggetti, gli artisti che hanno creato le statuine hanno sicuramente tenuto presente la scuola del naturalismo seicentesco, soprattutto certe opere di Jusepe de Ribera, pittore spagnolo che decise di restare a Napoli tutta la vita, che realizzò diversi ritratti di persone che, per la loro miseria e le loro deformità, (soprav)vivevano ai margini della società.

 

Per quanto riguarda gli umili pastori, oltre ad esemplari caratterizzati dal classico, ma misero gilet in pelle di pecora, dalla bisaccia e dal bastone, ve n’erano alcuni altri il cui abbigliamento era un po’ più ricco, costituito da pantaloni e giacca in seta operata con disegno quadrettato e bottoni in argento, stoffe realizzate appositamente dai “cositori” nelle fabbriche di San Leucio.

 

Gli storpi erano invece vestiti solo ed esclusivamente di poveri e sudici stracci e le zingare di camicie in tela bianca, gonne e grembiuli semplicissimi e talvolta scialli in cui avvolgere il loro neonato e tenerlo fra le braccia.

 

Nel creare questi lattanti in miniatura alcuni artisti si sono limitati a testine di terracotta che fuoriescono dalle fasce, altri, più attenti alla cura dei particolari, hanno modellato anche le braccine nude dei neonati, ritraendoli nell’atto del dormire, appoggiati al seno materno, con un tocco di rosa sulle gote e con le piccole labbra dischiuse.

 

Da sempre Napoli è la città degli estremi, dove ricchezza e miseria sono due facce della stessa medaglia, e anche nel Settecento accadeva che famiglie ricche e blasonate convivessero con quei miserabili descritti poc’anzi.

 

Questa realtà è ben rappresentata nel Presepe, dove accanto al povero troviamo, ad esempio, il “Vecchio borghese” con l ’ abito da festa che svela la sua condizione agiata.

 

Si tratta di una delle statuine realizzate da Giuseppe Gori, considerato da molti studiosi l’erede di Giuseppe Sanmartino.

 

Questo personaggio indossa giamberga e pantalone in velluto riccio di colore nero su fondo di raso color oro-vecchio, la fodera della giamberga è in seta e lo è anche il gilet, laminato in argento. I pantaloni sono fermati da una cintura in seta operata e la camicia è di lino.

 

Le lunghe calze sono in seta, tenute ferme da un nastrino rosso legato al ginocchio.

 

Il pesante velluto del suo abito, modello tendente alla moda francese, ma indissolubilmente ancora legato allo stile spagnolo, ed i tratti grossolani del viso ci suggeriscono che probabilmente non è nobile di nascita, ma è un “arricchito”, qualcuno che ha migliorato la sua posizione sociale grazie al guadagno, potrebbe essere un commerciante, un bottegaio, un borghese di origini rurali, tutto eccetto un aristocratico.

 

In questi abiti in miniatura troviamo continuamente riferimenti a quelli dipinti da artisti come D’Anna, Berotti, Santucci, Joli e Fabris, i quali ci hanno lasciato una vera e propria rassegna dei costumi del Regno di Napoli, e perciò constatiamo che nel vestire queste statuine nulla è stato lasciato al caso, chi le ha realizzate si è scrupolosamente documentato osservando i loro disegni e dipinti.

 

Una di queste fonti d’osservazione fu certamente la “Raccolta di varii Vestimenti ed Arti del Regno di Napoli” di Pietro Fabris, in cui vi sono non solo ritratti di comuni uomini e donne dei vari territori del Regno, ma anche personaggi che svolgono precisi mestieri e che ritroviamo nel Presepe, come i friggitori, i vinai, i servitori, i venditori, i suonatori e i pescatori.

 

Al modo di vestire di questi ultimi s’ispira appunto l’abito da pescatore che indossa Ferdinando IV di Borbone ritratto, in giovane età, forse negli anni ’70 del XVIII secolo come sostengono alcuni studiosi. Il disegno che lo raffigura, eseguito a matita e acquerello su carta, è conservato presso il Museo di San Martino di Napoli. Abbiamo già detto più volte che il Sovrano mostrava un forte interesse nei confronti del popolo minuto, delle sue tradizioni e dei suoi costumi e disegni come questo lo testimoniano, mostrandoci un re amante non solo di seriosi ritratti ufficiali, ma anche di altri meno impegnativi.

 

Fa da sfondo a questo ritratto il Vesuvio e alle spalle del re si vedono marinai a lavoro su un’imbarcazione, Ferdinando IV indossa abiti da pescatore, ammodernati rispetto a quelli tradizionali, decorati da un motivo a righe su pantaloni che gli arrivano alla caviglia.

 

Sopra indossa una camiciola con lo stesso motivo dei calzoni, fermata in vita da un’ampia fascia, completano il tutto una giacca, calze, scarpe con una grossa fibbia ai piedi e un berretto in testa.

 

Si tratta ovviamente di un modello più ricco e raffinato di quello tradizionale che prevedeva invece camicia, semplici calzoncini di tela, corpetto rosso privo di maniche e berretto frigio bianco.

 

I costumi presi in considerazione, da quelli raffigurati dai pittori D’Anna, Santucci e Berotti a quelli confezionati per le statuine del Presepe, passando per quelli del Carnevale, possono essere considerati veri e propri “documenti” di un popolo, quello del Regno di Napoli nel Settecento, che, pur non avendo politicamente voce in capitolo, provava, almeno, a farsi notare attraverso i capi che indossava, tradizionali, ma nello stesso tempo fantasiosi e diversi a seconda dei mestieri, del ceto e delle province di appartenenza.

 

 

 

2.2 Uniformi militari

 

Per definizione, il termine “uniforme” sta ad indicare un abito uguale per tutti gli appartenenti alla stessa arma, corpo, specialità, categoria gerarchica, ordine, istituto, servizio.

 

Si potrebbe pensare perciò che, a differenza dei costumi popolari e degli abiti di corte, poco fosse concesso alla fantasia di chi, nel Settecento, realizzava questi capi, vista la ripetitività delle loro caratteristiche, e che poco ci s’interessasse ad essi

 

.Invece i sovrani europei furono attenti a come vestire i loro soldati e fu vanto di molti di loro poter contare su eserciti contraddistinti da splendide uniformi, anche se, nel caso del Regno di Napoli, bisognerà attendere le riforme di John Acton del 1780 perché la realizzazione delle uniformi venisse affidata a manifatture reali permanenti che ne creassero di resistenti ed eleganti.

 

Non solo il Regno di Napoli , ma ogni altra nazione, ha dovuto attendere la seconda metà del ‘600 e oltre perché il semplice vestiario dei propri soldati avesse dei colori e dei modelli fissi tali da trasformarlo in una vera “uniforme militare”.

 

Nei secoli precedenti, quando veri e propri eserciti non esistevano neppure, ma solo “fanterie nazionali” (che affondano le loro radici nel lontano quindicesimo secolo), i corpi di milizie venivano contrassegnati da “bande” , cioè strisce di tessuto colorato cucite al vestito o legate al braccio, e a Napoli si adoperò la banda rossa, stesso colore degli ispano-imperiali.

 

Il capitano Cinuzzi ci ha lasciato degli scritti, coevi al periodo in cui svolse la sua carriera militare, sull’abbigliamento dei soldati alla fine del Cinquecento.

 

Egli fu al servizio del duca di Parma Alessandro Farnese, il quale aveva voluto con sé, nelle guerre civili di Francia, anche milizie napoletane.

 

Da questi documenti si evince che i soldati di allora non avevano uniformi, anzi il loro abbigliamento era quasi folcloristico << il soldato vestirà conforme allo stato ed al poter suo ed alla sua usanza [...] con bel cappello, sopravi penne, acciocché vada bizzarro e che paia che habbia sempre gran cose in testa, se è possibil, di colore rosso, come usavano i Romani sì per esser colore allegro, bizzarro e che denota vittoria >>

 

1. Vediamo ora nei particolari come erano organizzati gli eserciti napoletani molto prima che, con Carlo III, si avesse finalmente la possibilità di costituire un unico Regno con un unico esercito.

 

Nel ‘600 i viceré disponevano a Napoli di varie compagnie di cavalleria, inclusa una formata da cavalieri greco-albanesi, ciascuna avente una sessantina di uomini.

 

Ogni viceré disponeva inoltre di truppe mercenarie straniere, di un centinaio di nobili cavalieri napoletani aventi il compito di guardie del corpo, di una fanteria e di milizie locali.

 

In genere, le truppe spagnole di Filippo V acquistavano le loro uniformi dalla Francia, nazione che, come più volte avremo modo di sottolineare nei capitoli successivi, dettava legge nel campo della moda.

 

Inevitabilmente, nel Settecento l’abbigliamento dell’esercito napoletano si ispirava a quello dell’esercito spagnolo, la cui divisa “standard” era formata dalla giamberga, detta anche marsina, giustacuore o casacca, dalla sottoveste, lunga fino sopra il ginocchio e che progressivamente si accorciò, sempre priva di colletto; dalle calze lunghe, dagli stivali in cuoio e dal tricorno nero sul capo.

 

Diverse cedole di Cassa Militare, dei primi anni del ‘700, rivelano che l’esercito napoletano, prima che si stabilissero gli Austriaci nel Regno, seguiva in tutto e per tutto i dettami ispanico-imperiali.

 

Una cedola del 1701 descrive, in lingua spagnola, trenta cappotti per sentinelle napoletane << de color amusco (muschio) >>,

 

2.  mentre un’altra del 1703 dice che si acquistarono panni di Cerreto di color “misto” (muschio e bianco) per confezionare uniformi della fanteria spagnola; nel 1704 si fabbricarono corpetti e calze verdi per un reggimento a Napoli e furono impiegate 270 canne di tela verde di Caserta; infine, una cedola del 1706 elenca 784 cappelli << nigri della Fragola (Afragola) >>

 

3. in dotazione al locale reggimento di fanteria.

 

Quando sopraggiunse la dominazione austriaca, Napoli non aveva ancora avuto modo di avere una propria uniforme, sappiamo solo che Filippo V aveva sottolineato, in un diario ufficiale, quanto fosse importante l’uniforme per ogni nazione e per ogni regno, poiché essa aveva anche la funzione di consolidare alleanze ed amicizie, e prescrisse che, in segno d’intesa, << con la divisa rossa, che la nazione spagnola portava nel cappello, si mescolasse la bianca che portavano i francesi >>

 

4. Fino agli inizi del ‘700, a Napoli la milizia si chiamava “terzo fisso”, consistente in un reggimento suddiviso in una trentina di compagnie di un centinaio di uomini l’una ed era impiegato per presidiare la Capitale, le maggiori piazze del Regno, le marine più esposte ed i Presidi di Toscana al fine di garantire il possesso del Regno alla corona spagnola.

 

In più esistevano una serie di milizie locali, radunate periodicamente, solo in caso di necessità, che vennero abolite da Carlo III nel 1743.

 

A partire dal 1701, per fronteggiare la minaccia austriaca ai possedimenti spagnoli in Italia, molte truppe affluirono nel napoletano, provenienti da altri possedimenti spagnoli e dalla Francia.

 

Nel 1702, in occasione dell’arrivo di Filippo V a Napoli, venne formato un reggimento di guardie di cavalleria. In totale, la guarnigione militare del Regno di Napoli era formata da : Fanteria, 3302 uomini; Cavalleria, 670 uomini; Dragoni, 715 uomini; altri reggimenti a Capua, Gaeta, nelle isole, in Toscana e in Abruzzo, circa 4000 uomini in tutto.

 

Nonostante tutto, fino alla seconda metà del Settecento lo spettacolo che si presentava agli occhi di chi osservava le uniformi delle truppe del Regno di Napoli non era piacevole: nel 1701 furono stanziate truppe ispano-napoletane in Catalogna ed essendo il loro vestiario di scarsa qualità, si presentarono lacere, misere e fameliche; non era migliore lo stato in cui versava la Cavalleria in quegli anni, s’indignò persino il sovrano di allora, Filippo V, nel constatare la situazione.

 

Infine abbiamo la testimonianza dell’abate Galiani, ambasciatore del Regno delle due Sicilie per volere di Carlo III, risalente alla seconda metà del Settecento, che descrisse lo stato misero in cui si trovavano le fanterie napoletane nei Presidi di Toscana.

 

Le vicende storiche del Regno di Napoli, note a tutti, furono caratterizzate dal susseguirsi delle dominazioni straniere, per questo non esisteva un’organizzazione autonoma, né civile, né militare, perfino usi e costumi furono influenzati dai vari dominatori stranieri.

 

Questa particolare situazione intiepidì la tradizione militare delle popolazioni, anche se queste ultime non si tirarono mai indietro e, come poterono, contribuirono con valore alle imprese degli eserciti spagnoli, aiutandoli a vincere.

 

Fu con l’ascesa al trono di Carlo III che si ebbe un regno (di nuovo) autonomo. Egli fronteggiò la situazione politica appena descritta e, dovendo creare dal nuovo l’esercito del Regno di Napoli, ma non potendo contare su specifiche manifatture locali, fece comunque in modo che le uniformi dei suoi corpi militari non fossero da meno a quelle delle altre monarchie, e fossero ispirate rispettivamente a quelle dell’Austria per quanto riguardava la Fanteria, a quelle della Francia per l’Artiglieria e alla Prussia per la Cavalleria.

 

Nel XVIII secolo, e oltre, varie furono le raccolte che si occuparono di illustrare le uniformi militari, tra le più antiche testimonianze relative alle uniformi napoletane vi sono quattro acquerelli del 1746 conservati nella raccolta Brown, della Brown University di Providence,

 

5. Stati Uniti. Uno di essi raffigura un Caporale di Artiglieria che indossa una giamberga blu, priva di colletto e con paramani rossi, un “ giamberghino “, cioè un panciotto, rosso, calzoni e calze bianchi, scarpe nere con la fibbia dello stesso metallo giallo dei bottoni e il suo copricapo è un tricorno nero, bordato di giallo con una coccarda rossa, colori della dinastia spagnola.

 

Tra le più importanti raccolte che si occuparono di uniformi vi furono quella di De Montigny, stampata a Parigi nel 1772, sulle Uniformi della Casa Reale e dell’esercito francese, quella del colonnello inglese J. Luard, sulla storia delle uniformi dei soldati inglesi, quella di Francesco Biondi sulle uniformi appartenenti all’ultimo periodo del Regno di Ferdinando IV, fino a giungere al 1850 quando, per volere di Ferdinando II, si rinnovarono le uniformi dell’esercito e della marina borbonica e il sovrano chiese ad Antonio Zezon, nobile litografo-editore spagnolo la cui famiglia era al servizio dei Borbone fin da quando Carlo III giunse a Napoli, di realizzare un volume che illustrasse tutte le divise e che glorificasse l’esercito borbonico.

 

Deduciamo da queste notizie che nei secoli scorsi c’è stato un vivo interesse per l ‘ abbigliamento militare, anche se lo studio delle uniformi inteso come scienza, l‘ “uniformologia” appunto, si è consolidato nel Novecento, prima in Francia e Germania e poi in Italia.

 

Tornando alla riorganizzazione dell’esercito effettuata da Carlo III, bisogna ricordare che, quando giunse a Napoli il 10 maggio del 1734, egli portava con sé dalla Spagna 35.000 uomini, circa la metà di quello che doveva essere il suo esercito, poiché a Napoli non c’era un numero sufficiente di uomini: ad occuparsi dell’artiglieria ve n’erano appena 300, con semplici mansioni di addetti alla fonderia di cannoni, addetti ai magazzini delle polveri di Castel dell’Ovo, addetti al laboratorio di munizioni sulla strada di Chiatamone, addetti ai bombardieri delle fortezze e dei presidi costieri.

 

All’inizio del regno di Carlo III anche l’organizzazione e i regolamenti militari, come il resto dell’ordinamento statale, furono fortemente influenzati dalla Spagna.

 

Il Re fondò nel 1735 l’Accademia dei Guardia Stendardi, dove si insegnavano discipline quali la navigazione e le scienze matematiche, un vero e proprio Collegio che nel 1752 fu trasferito alla “Nunziatella”.

 

Poi si preoccupò che il nuovo Regno avesse una flotta per difendersi dagli attacchi dei barbareschi e formò un nucleo di quattro galee, tre delle quali acquistate dal Papa Clemente XII e un’altra, “Capitana”, costruita a Napoli.

 

Fu ingrandito l’Arsenale di Napoli e dal 1738 in poi fu iniziata la costruzione di varie feluche.

 

In quello stesso anno, il sovrano creò l ’ “ Ordine Cavalleresco di San Gennaro “ e cinque anni dopo i dodici “ Reggimenti Provinciali “, ma solo il 25 novembre 1743, tramite le Ordinanze, si decise ad includere ufficialmente i contingenti locali a questi reggimenti spagnoli; infine con un Decreto del 3 dicembre 1745, Re Carlo fece ingrandire il Molo di Napoli.

 

Nel 1749 un’ordinanza, scritta in spagnolo, in quel periodo lingua ufficiale dell’esercito napoletano, prescrisse che il vestiario di un particolare Reggimento, Dragoni del Principe, dovesse essere giallo e nero e che i soldati ad esso appartenenti dovessero avere fucile e sciabola.

 

Nel 1755 l’esercito napoletano era composto da: Guardia Reale, Fanteria, Cavalleria, Artiglieria e Corpo degli Ingegneri, esercito che si era precedentemente distinto nella Guerra di Successione Austriaca.

 

A proposito degli austriaci, ricordiamo che alla morte del loro imperatore, Carlo VI, la Spagna aveva deciso di riconquistare i ducati italiani e Carlo III dovette affiancare le sue truppe a quelle inviate dai genitori.

 

Il 12 agosto 1742, la famosa notte della potente scossa di terremoto, si avvicinò al porto una squadra navale inglese, alleata di Vienna, che intimò al Sovrano di ritirare i contingenti altrimenti Napoli sarebbe stata bombardata.

 

Carlo III dovette accettare l’ultimatum perché non aveva una forza navale abbastanza forte da contrastare quella inglese (l’avevamo accennato nel I Capitolo) e fu questa circostanza che in seguito lo spinse a reclutare nuovi reggimenti e intensificare l’attività dei cantieri navali.Il Museo di San Martino a Napoli conserva diversi acquarelli, risalenti agli anni ’50 del Settecento, che raffigurano le uniformi relative ai vari reparti e che testimoniano come i due battaglioni di ogni reggimento si differenziassero per alcuni dettagli.

 

Le loro uniformi si distinguevano infatti per il diverso colore dei calzoni, il secondo battaglione li aveva dello stesso colore del panciotto, detto “giamberghino”, diminutivo di giamberga, abito che dalla vita in giù si allargava a gonna fino al ginocchio, il cui nome deriva probabilmente dal cognome di un maresciallo francese, Schomberg

 

6. Le uniformi della Fanteria erano caratterizzate da giamberga, sottoveste con collaretto, paramani, gallone e bottoni e pantaloni, i cui colori variavano, a seconda dei Reggimenti, dal rosso, al blu, al bianco.

 

Ad esempio, i soldati appartenenti al Reggimento “Re” indossavano giamberga e pantaloni rossi, sottoveste, collaretto e paramani blu, gallone e bottoni gialli.

 

Quelli appartenenti al Reggimento “Fanteria Italiana” avevano invece giamberga e pantaloni bianchi, sottoveste, collaretto e paramani verdi, gallone e bottoni gialli.

 

Tra le uniformi dei Reggimenti Provinciali vi erano poi colori particolari, ad esempio il Reggimento “Val di Mazzara” era caratterizzato sempre da giamberga e pantaloni rossi, ma sottoveste, collaretto e paramani erano color seppia e bottoni e gallone color oro.

 

Nel Reggimento “Terra di Otranto” gallone e bottoni erano argentati, sottoveste, collaretto e paramani verdi e giamberga e pantaloni rossi.

 

C’erano ancora “Terra di Lavoro”, in cui giamberga e pantaloni erano blu, sottoveste collaretto e paramani rossi e gallone e bottoni argentati, e “Calabria Ultra”, i cui soldati vestivano giamberga e pantaloni gialli, sottoveste, collaretto e paramani neri e gallone e bottoni color oro.

 

Nella Cavalleria spiccavano le uniformi degli ufficiali: giamberghe viola con bordo rosso, sottoveste, paramani e collaretto variabili dal rosso, al blu, al verde a seconda dei reggimenti e bottoni e gallone argentati.

 

I copricapi che caratterizzavano un po’ tutti i corpi erano i classici “tricorni”. Le scarpe erano di pelle, chiuse da grossa fibbia e indossate con calze lunghe color chiaro.

 

Nel 1759 Carlo III lasciò Napoli per salire al trono di Spagna poiché il suo fratellastro Filippo IV era morto senza eredi.

 

Essendo troppo piccolo Ferdinando IV, il primo ministro Bernardo Tanucci divenne reggente al trono di Napoli.

 

Qualche anno dopo, nel 1765, egli sciolse quei 12 Reggimenti Provinciali che erano stati istituiti da Carlo III, sostituì due nuovi reparti ai tre vecchi reggimenti di Sicilia e creò sei nuovi reggimenti, “Sannio”, “Real Campagna”, “Calabria”, “Puglia”, “Lucania”, “Messapia”, “Siracusa” e “Agrigento”.

 

Durante il Regno di Ferdinando IV furono apportate modifiche all’organizzazione delle forze armate, a partire dal 1765, anno in cui vi fu una riforma che alleggerì i pesanti ordinamenti spagnoli, le varie forze dell’Esercito furono sinteticamente ripartite in Guardia Reale e Fanteria di Linea.

 

Le “Reali Guardie Italiane” indossavano giamberga e pantaloni blu e sottoveste, paramani e collaretto rossi, le “Reali Guardie Svizzere” viceversa, giamberga rossa e sottoveste blu.

 

Il colore delle uniformi dei vari Reggimenti componenti la Fanteria di Linea variavano dal blu, al rosso, al bianco per quanto riguarda giamberga e pantaloni e dal verde, al rosso al blu per quanto riguarda sottoveste, paramani e collaretti.

 

Nel 1769 la Reale Accademia d’Artiglieria e quella del Corpo degli Ingegneri furono unificate col nome di Reale Accademia Militare.

 

Venne inoltre istituito un Corpo scelto di Cadetti, chiamato in seguito “Battaglione Real Ferdinando”, il cui Colonnello fu lo stesso Ferdinando IV.E’ interessante segnalare un ’ ordinanza del 14 settembre 1771 che concedeva ai soldati l’uso di divise estive, calzoni e giamberghino bianchi, semplici, privi di qualsiasi ornamento.

 

La stessa ordinanza prescriveva che i soldati non avessero strappi e che fossero pettinati in modo impeccabile.

 

Delle raccolte statunitensi presso la Brown University, alle quali si accennava ad inizio paragrafo, fanno parte una serie di disegni, raffiguranti l’esercito napoletano nel 1776, che gli studiosi Brandani, Crociani e Fiorentino hanno visionato negli anni ’70.

 

Essi hanno osservato che in una ventina d’anni i modelli delle uniformi si erano trasformati, ad esempio la giamberga della Fanteria era diventata più corta ed attillata, il colletto rovesciato era stato sostituito da un collettino dritto, il tricorno si era rimpicciolito, così pure il giamberghino e i paramani, l’astuccio che custodiva le cartucce, la giberna, venne appeso ad una bandoliera bianca e infine tutti i materiali in cuoio furono bianchi.

 

I fucilieri non erano ormai più dotati di sciabola, ma di baionetta posta nell’apposito portabaionetta, alla sinistra del cinturone, mentre il giamberghino si arricchì di una chiusura in ottone modellata come le iniziali del reggimento.

 

La giamberga degli appartenenti alla Cavalleria si caratterizzò per avere dei risvolti sul petto dello stesso colore del reggimento.

 

 I colori delle divise non variarono rispetto a quelli del 1755.Tra queste uniformi risalenti al 1776 ve ne erano alcune particolarissime, come quella dei Fucilieri di Montagna, di derivazione catalana, gialla, con ampio mantello verde e “ciocie”

 

7. L’ordinanza del 1° maggio 1778 prescrisse che l’uniforme di ogni reggimento, senza eccezioni, dovesse essere dotata di spada e che, nei giorni in cui i reggimenti di Casa Reale avrebbero indossato l’alta uniforme, solo essi avrebbero potuto avere un cinturone del colore della sottoveste e bordato d’oro, mentre tutti gli altri ne avrebbero avuto uno di cuoio bianco lavorato. 

 

Verso gli anni ’80 del Settecento, il Regno di Napoli acquistò una sua autonomia, subendo di meno l’influenza spagnola e rinnovando, grazie alle riforme del 1786 e del 1788 del ministro John Acton, la struttura e le uniformi dell ’ esercito: giamberga blu per la fanteria e celeste (o verde) per le truppe a cavallo, mentre i calzoni furono di pelle giallastra.

 

Anche il taglio andò man mano modificandosi, fino ad arrivare al regolamento dell ’ 8 aprile 1791 che stabiliva che l’uniforme militare dovesse avere falde e paramani più corti.

 

La riorganizzazione di John Acton si tradusse in un distacco dai sistemi spagnoli, i Reggimenti Valloni furono aboliti, la distribuzione di ufficiali e sottufficiali fu regolarizzata, tutti i servizi amministrativi furono riuniti sotto un’unica Intendenza Generale dell’Esercito e la Fanteria fu divisa in 23 Reggimenti.

 

Furono realizzate, grazie al contributo del Corpo degli Ingegneri, opere militari e civili: la bonifica di terreni a Miseno, Bacoli, Miliscola e Cuma, lo scolo delle acque del Fusaro, il porto di Brindisi e quello di Baia.

 

La Fanteria fu equipaggiata secondo il modello prussiano, l’Artiglieria secondo il modello francese e fecero progressi la Fabbrica di armi di Torre Annunziata e le varie ferriere che permisero una migliore fusione dei pezzi. John Acton non trascurò la Marina, che dal 1779 ebbe nuovo sviluppo e si emancipò dall’influenza iberica e fu eliminato, per prima cosa, l’uso di impartire gli ordini a bordo in lingua spagnola.

 

Si può affermare insomma che, mentre il Tanucci si era interessato poco all’esercito, John Acton, che fu ministro della guerra e in seguito primo ministro, fu protagonista di molte iniziative che ravvivarono la seconda fase del Regno di Ferdinando IV.

 

L’ordinanza del 1780 regolamentò il vestiario delle Reali Guardie Svizzere, prescrivendo che le giacche fossero rosse, il panciotto e i calzoni blu scuro e le bottoniere poste sui risvolti del petto, le quali variavano di numero a seconda del reggimento.

 

Queste loro uniformi erano inoltre ornate da gigli in argento applicati alle falde della giacca e comprendevano anche ghette bianche, tricorno nero bordato d’argento con coccarda rossa e pompon, fucile, baionetta e daga, una spada corta e larga, con impugnatura di metallo bianco.

 

La stessa ordinanza stabilì inoltre che i maggiori avessero un galloncino in argento intorno ai paramani, i tenenti colonnelli due e i colonnelli tre.

 

I capitani dovevano avere due spalline in argento sulla giacca, i tenenti una sola, portata a destra, e gli alfieri una a sinistra.

 

Man mano fra il 1782 e il 1783 l’intero esercito uniformò il colore delle divise: la Fanteria indossò giamberghino blu con calzone bianco, i vari reggimenti si distinguevano solo ed esclusivamente per il colore del collaretto e dei paramani.

 

Le uniformi dell’Artiglieria furono grigio ferro con risvolti dei baveri scarlatti.

 

Infine su sei reggimenti di Cavalleria quattro ebbero uniformi celesti e due verdi, tutti però ebbero sottoveste e calzoni di pelle gialla, distinguendosi fra loro solo per il colore dei paramani e per il bottone.

 

Il francese Pommereul riordinò l’Artiglieria con l’ordinanza dell’11 dicembre 1788 e decise che la nuova uniforme del Corpo dovesse essere giacca, panciotto e calzoni di panno blu scuro, con fodera, colletto, paramani e filettature rosso scarlatto e bottoni gialli.

 

Il tricorno sul capo è bordato di bianco, con coccarda bianca e rossa, ed è ornato da un pennacchio, bianco per il reggimento “ Re “ e rosso per il “ Regina “.

 

Il Regolamento del 31 ottobre 1789 stabiliva fin nei minimi dettagli come dovessero essere le uniformi dei generali, dei commissari di guerra, degli intendenti, degli ufficiali degli Stati Maggiori delle Piazze e delle Armate, dei medici, degli ufficiali in ritiro e della fanteria.

 

L’ alta uniforme degli ufficiali era composta da giacca lunga blu scuro, con falde abbassate, non allacciata, con paramani, collettino dritto e fodera di colore scarlatto, panciotto e calzoni scarlatti, calze bianche e scarpe o stivali neri.

 

Il cappello era decorato con coccarda rossa appuntata da trine e da un bottoncino dorato, come i bottoni dell’uniforme.

 

L’uniforme è completata da un cinturino bianco, spada con impugnatura dorata e dragona, la striscia annodata all’impugnatura, in argento misto a seta scarlatta.

 

Questa uniforme è resa particolare da ricami a filo d’oro: un solo ordine di ricamo apparteneva ai Marescialli di Campo, due ordini contraddistinguevano i Tenenti Generali e i Capitani Generali.

 

Il Brigadiere era caratterizzato da bottoni e ricami in argento, mentre i Commissari di Guerra avevano ricami particolari che decoravano le loro giamberghe blu scuro con colletto, paramani e fodera rossi.

 

Esisteva poi il corpo sanitario, la cui divisa, color grigio ardesia, era caratterizzata dal risvolto del bavero rosso e nero.

 

I sanitari non erano considerati veri e propri ufficiali, infatti le loro uniformi erano sprovviste sia delle spalline sia della dragona della spada e i loro gradi si potevano scorgere solo grazie a piccoli ricami.

 

Il regolamento del 1789 non trascurò la fanteria, corpo che già nel 1788 era stato diviso in dieci Brigate, ciascuna composta da due reggimenti, a loro volta divisi in tre battaglioni.

 

Le loro uniformi erano composte da giacca blu con colletto e paramani del colore proprio di ciascuna Brigata, panciotto bianco con colletto e bottoni in metallo giallo o bianco a seconda che si trattasse di primo o secondo reggimento di ogni Brigata.

 

Infine calzoni bianchi e ghette nere con bottoncini gialli per tutti, mentre in estate usavano panciotto di tela e pantaloni attillati, detti a “ pampiera “, che fasciavano tutta la gamba, fino a coprire parte della tomaia della scarpa, sostituendo così le ghette.

 

Sul capo si portava il consueto tricorno nero, ornato con orlo di filo bianco e coccarda rossa.

 

Agli angoli del tricorno c’erano fiocchetti di vario colore, ciascuno ad indicare le varie compagnie di fucilieri, mentre un pompon indicava il battaglione d’appartenenza.

 

I granatieri differivano dai fucilieri solo per il copricapo, di feltro nero a forma cilindrica, decorato sulla parte anteriore da una piastra di metallo giallo con inciso il monogramma reale.

 

Tutti i soldati erano poi forniti di una “tenuta di fatica”, una sorta di spolverino in tela grezza indossato durante i lavori pesanti, completata da un copricapo blu con la fascia inferiore del colore distintivo della compagnia.

 

Gli studiosi Brandani, Crociani e Fiorentino hanno osservato che questo spolverino è riconoscibile persino in un quadro dell’ Hackert del 1794, ornato da un colletto e una controspallina, ciascuna compagnia ne aveva una del proprio colore.

 

8. Riepilogando possiamo affermare che il regolamento assegnava alla fanteria: il colore distintivo rosso ai due reggimenti “Re” e “Regina”, appartenenti alla 1° Brigata; il colore cremisi ai reggimenti “Real Borbone” e “Real Farnese” della 2° Brigata; il color giallo limone ai reggimenti “Real Napoli” e “Real Palermo” della 3° Brigata; il color verde cocomero ai reggimenti “Real Italiano” e “Real Campagna” della 4° Brigata; il color giallo giunchiglia ai reggimenti “Puglia” e “Lucania” della 5° Brigata; il color verde cupo ai reggimenti “Sannio” e “Messapia” della 6° Brigata; il colore nero ai reggimenti “Calabria” e “Agrigento” della 7° Brigata; il colore celeste ai reggimenti “Siracusa” e “Borgogna” dell ’ 8° Brigata; infine i reggimenti della 9° e 10° Brigata, composti da stranieri, avevano uniformi particolari, blu con panciotto giallo e risvolti del bavero rossi per gli Albanesi e uniformi simili a quelle della fanteria nazionale per tutti gli altri.

 

Precisiamo che di nazionalità albanese erano i militanti nel reggimento “Real Macedone”, esistente fin dal novembre 1737, e che le loro divise si caratterizzavano per il “kolbak”, cappello che sostituiva il consueto tricorno, di pelo a staio rovesciato, con sciarpa rossa terminante a fiocchetto uscente dalla cima e pendente sul lato destro del copricapo stesso.

 

Il popolo napoletano diede a questi soldati il soprannome di “camiciotti” per il loro lungo corpetto, il “giustacuore”

 

9. Il Regolamento dell ’ 8 aprile 1791 si occupò della Cavalleria, le cui uniformi, già dal 1787, s’ispiravano alla Prussia.

 

La giacca divenne priva di bottoni e chiusa quindi da semplici ganci e aveva colletto e paramani del colore specifico di ogni reggimento.

 

Le falde erano rialzate e foderate di bianco, guarnite da un gallone giallo, bordato di rosso.

 

L’attaccatura delle maniche alla giacca era messa in evidenza da una filettatura del colore specifico di ciascun reggimento, mentre in vita i soldati portavano una fascia scarlatta e sul capo un tricorno nero con coccarda nera, di sicura derivazione prussiana.

 

Sciabola con fodero di pelle nera e giberna, astuccio di cuoio per custodire le cartucce, pure nera.

 

Guanti di pelle giallastra e sabretache, la tasca in panno e cuoio pendente dalla cintura, color scarlatto con cifre reali in oro, “F. Rex”.

 

Il regolamento del 1791 rese appunto obbligatoria questa uniforme abolendo però la sabretache e variando il colore della coccarda da nero a rosso.

 

In più si prescrisse che, per quanto riguardava la tenuta giornaliera, una camiciola celeste dovesse sostituire la giacca e che il tricorno si dovesse portare inclinandolo sulla ciglia destra.

 

D’inverno la divisa era completata da cappe color chiaro. 

 

I soldati, i carabinieri e i caporali erano armati di carabina e sciabola che i soldati napoletani, pur avendone la fodera di cuoio nero, preferivano portare infilata negli stivaloni.

 

Vi erano poi sei reggimenti di Cacciatori Volontari che vestivano con giubbetto corto verde, panciotto e calzoni grigio cenere, fascia rossa in vita e caschetto di cuoio nero.

 

Gli ufficiali vestivano invece con una giacca lunga verde, con colletto e paramani di diverso colore a seconda del reggimento, bottoni e spalline in oro, panciotti e calzoni grigio cenere, stivali corti all ‘ “ungherese”. 

 

Gli avvenimenti che seguirono la Rivoluzione Francese mutarono l’organizzazione militare napoletana, la capitale del Regno si trovò coinvolta in pieno e per di più la regina, Maria Carolina, era sorella di Maria Antonietta: nel 1793 seimila soldati combatterono a Tolone contro la Francia, mentre nel 1796, sui campi di Lombardia, quattro reggimenti, “ Re “, “ Regina “, “ Principe “ e “ Napoli “, dimostrarono il loro valore nella prima fase della Campagna d’Italia e proprio gli invernali mantelli chiari di quei soldati, detti “pellegrine”, attirarono l’attenzione di Napoleone, tanto che li chiamò “ diavoli bianchi “.

 

Nel 1798, poco prima della sfortunata Campagna contro i francesi, furono formati alcuni ultimi reparti : i reggimenti dei Volontari Cacciatori di Frontiera, vestiti di una giacchetta corta color bruno, bottoni gialli e colletto e paramani del colore distintivo, panciotto grigio cenere e pantaloni dello stesso colore.

 

Nel 1799 metà della flotta costituente la Marina borbonica fu incendiata su ordine degli Inglesi, che volevano impedire che finisse in mano francese, e le unità superstiti seguirono Ferdinando IV in Sicilia.

 

L’esercito del Regno di Napoli durò dal 16 febbraio 1806 al 20 maggio 1815, periodo denominato “decennio dei Napoleonidi” in cui l’organizzazione militare fu influenzata dalla Francia, ed in molte occasioni si dimostrò superiore all ’ esercito del Regno Italico, non solo per valore e qualità, ma anche per l’eleganza delle proprie uniformi, considerate fra le più belle d’Europa.

 

Diversi personaggi si sono interessati alla storia di questo esercito e alle sue uniformi, a questo proposito l’uniformologo francese Forthoffer ci riferisce che durante la Seconda Guerra Mondiale un reparto di Tedeschi, su ordine di una personalità influente del Terzo Reich, forse Goering, prelevò dalla Sezione Militare

 

10. dell ’ Archivio di Stato di Napoli, a Pizzofalcone, luogo in cui fin dal 1787 era stata trasferita la Reale Accademia Militare della Nunziatella, materiale vario riguardante le uniformi del Regno di Napoli.

 

Il Museo di Capodimonte, il Museo Filangieri e alcune collezioni private conservano inoltre una serie di armi11 usate dai corpi militari del Regno di Napoli nel Settecento, si tratta sia di fucili da caccia di fabbricazione spagnola che recano sull’impugnatura lo stemma in oro di Carlo di Borbone, sia pistole elegantemente incise e niellate in oro a motivi fogliacei, con cassa in radica di noce arricchita da arabeschi, sia spadini di corte, con particolari impugnature a spira, pomo e motivi di foglie e fascie alternate.

 

E ancora fibbie da cinturone in bronzo con tre gigli coronati a rilievo, fibbie di reggimenti specifici e sciabole militari appartenenti al periodo 1740-1759, fino ad arrivare a spadini e scimitarre risalenti al decennio francese, medaglie e persino una collana in oro, con emblema in oro e smalto e croce centrale in oro, appartenuta all’ Ordine Cavalleresco di S. Gennaro, istituito da Re Carlo di Borbone il 6 luglio 1738.

 

 

 

2.3 Abiti di corte

 

La Napoli del Settecento, Capitale del Regno, città dei Re Borbone e soprattutto città neoclassica di Largo di palazzo, della Villa Comunale, della Riviera di Chiaia, era lo scenario ideale per il trionfo dei sontuosi abiti dei suoi aristocratici abitanti, confezionati con stoffe pregiate provenienti dall ’ Oriente e dalla Francia.

 

Questo trionfo avvenne in un secolo, il XVIII, in cui non solo gli abiti, sia maschili che femminili, ma anche le calzature e le pettinature, subirono decisive trasformazioni rispetto alle epoche precedenti, ne elencheremo alcune e ci accorgeremo che sono state graduali.

 

Fino agli inizi del ‘700 l’abito non aveva colletto, in seguito venne arricchito da un piccolo collo rigido e acquistò inoltre larghe falde rigide, disposte lateralmente in alcune pieghe e apertevi, con i lembi inferiori riuniti mediante un punto o un bottone.

 

Il risvolto era piccolo, chiuso dietro ed applicato separatamente, dopo il 1760 divenne poco più largo della manica e le pieghe laterali si rimpicciolirono.

 

Nel 1780 s’introdusse il gilet, senza maniche e foderato dietro di stoffa leggera. Sempre negli anni ottanta del Settecento comparve la marsina rifinita con un ricamo a finto nastro, una assoluta novità che diventò poi un obbligo alla fine del secolo.

 

La marsina, o veste, era alla fine del Seicento lunga e dritta, a falde squadrate, ma nel corso del Settecento divenne sempre più aderente al busto e alla vita.La sottoveste venne accorciata fino alla mezza coscia, ebbe in comune con l’abito le pieghe laterali e non fu più di pelle, ma di panno o stoffa setosa, spesso di raso bianco con ricamo a fiori e guarnizioni dorate o argentate.

 

Per quanto riguarda il soprabito, dal 1720 in poi si usò il “roquelaure” francese, senza vita e abbastanza ampio. Dalla fine del ‘700 esso andò restringendosi e prese il nome di “paletot”.

 

Durante tutto il XVIII secolo andò di moda la “robe”, unione di veste e busto, ma veniva indossata principalmente in occasioni solenni, mentre in casa e a passeggio si portava la “contouche”.

 

La “robe à la française” o “andrienne” era il costume settecentesco per eccellenza, diffusosi dopo il 1715, ed era l ‘ evoluzione della “robe volant”.

 

Si caratterizzava per il suo ampio pannello dorsale che, senza aderire al busto, si apriva in grandi pieghe dalle spalle fino a terra, formando mantello e strascico.

 

Si chiamò “Andrienne” perché questo era il nome di una commedia francese di Baron in cui l’attrice protagonista, Marie Carton Dancourt, entrò in scena così abbigliata e fece scalpore. Vietato inizialmente nelle cerimonie ufficiali per il suo carattere giudicato informale, s’impose invece dalla seconda metà del Settecento, anche a corte, diventando l’abito di gala preferito dall’aristocrazia. Esso si caratterizzava per la “chinoiserie” , cioè decori orientaleggianti che univano alcuni elementi fantastici ad altri naturalistici.

 

Verso il 1740 iniziò a non essere più in voga la veste a cerchi, ma rimase lo strascico, reso però più stretto e suddiviso in molte pieghe.

 

Le maniche si fecero più lunghe e senza sbuffi, guarnite di un risvolto, cui poi succedettero i merletti.

 

Verso il 1760 tornò nuovamente di moda il vestito a cerchi, di dimensioni straordinarie: sulle anche era talmente rigonfio che vi si potevano adagiare le braccia.

 

Era di forma ovale, con i lati più larghi, tanto sporgenti sia avanti che dietro, che le dame, per passare da una porta all’altra, dovevano disporsi lateralmente rispetto al varco.

 

Questa “armatura a cerchi”, in ferro o in legno, posta sotto la gonna per tenerla gonfia, nacque in realtà un paio di secoli prima, il “guardinfante” o “verducato”, per proteggere dagli urti le donne incinte.In un primo tempo, l’apertura sul davanti della gonna rimase, poi venne chiusa e la gonna si tirò su in più punti tramite cordoncini. Infine la vita della veste di sopra, detta “manteau” , si trasformò, facendogli prendere la forma di un giacchetto, detto “caraco”.

 

Sotto quest’ultimo s’indossava un farsettino di stoffa più chiara.

 

Le stoffe con righe verticali entrarono in uso dal 1770 in poi sia nell’abbigliamento maschile che in quello femminile, si trovavano con una certa frequenza nei figurini di moda dell’ultimo decennio del Settecento, sia nei modelli più sportivi, che in quelli più eleganti.

 

In un secondo momento, con l’ascesa di Napoleone, nell’abito maschile di gala si verificò un ritorno a forme e decorazioni in voga durante l ‘ Ancien Régime: i ricami lungo il collo, le mostre, i paramani, le tasche e i piegoni della marsina, il taglio a falde sfuggenti, i calzoni a culottes (questi ultimi soprattutto nelle vesti cerimoniali e di corte).

 

Le calzature subirono ugualmente delle trasformazioni, ad esempio lo stivale che si usava per andare a cavallo divenne più spesso, ve n’erano alcuni esemplari di fattura massiccia che vennero chiamati “cannoni”.

 

Nel ‘700 il piano del tacco della scarpa venne spinto sempre più verso la parte centrale della suola, la punta variò più volte in larghezza e lunghezza.

 

La chiusura consisteva in un’allacciatura a nastri o a fibbie.

 

La Rivoluzione Francese eliminò queste calzature scomode e introdusse tacco basso e largo. Le scarpine da quel momento furono semplicemente legate mediante due nastri avvolti intorno alla gamba, talvolta fino a raggiungere l’altezza del polpaccio.

 

Le pettinature nel XVIII secolo erano imponenti, le nobildonne si acconciavano il capo con piume di struzzo, fiori e mussoline.

 

Sul finire del ‘700 si diffuse la moda di indossare cuffie di smisurate dimensioni, come la “dormeuse”.

 

I cappellini indossati dalle signore verso il 1780 erano piccoli e venivano disposti obliquamente sulle gigantesche pettinature.

 

Scomparse queste, essi si portarono di nuovo sulla testa, ma specie dopo il 1790, divennero così piccoli da essere praticamente inutili.Un ritratto di Maria Carolina d’Austria, consorte di Ferdinando IV, eseguito a matita da Costanzo Angelini intorno al 1790 ed inventariato dalla Società Napoletana di Storia Patria, mette appunto in evidenza la vistosa acconciatura della sovrana e l’uso di valorizzare la già voluminosa cascata di riccioli con un nastro annodato con fiocco e con l’aggiunta di piume

 

1. Dal volume I dell ‘ opera “Usi e Costumi di Napoli” del De Bourcard apprendiamo che nel ‘700 e nel ‘800 esistevano delle figure femminili specializzate nel sistemare le acconciature delle nobildonne : << che cosa ne sapete voi, belle ed eleganti patrizie che seguite scrupolosamente i capricci della “Dea incostante”, di quel piccolo popolo d’industriose fanciulle che s’occupa dal mattino alla sera di accrescervi grazie [...] se nel cristallo dello specchio nel quale voi v’assicurate dell’effetto che farà tale o tal altra acconciatura le date la vostra sentenza irrevocabile d’un sorriso di compiacenza [...] certo che sareste più indulgenti per quella piega che non così ben s’accorda all’armonia delle belle linee della vostra persona >>

 

2. Queste figure erano le “modiste”, versione partenopea delle “grisette”

 

3. parigine.

 

Eppure l’autore si raccomanda di non confonderle << l’una non ha più che fare coll’altra di quel c’ha che fare il cielo di Parigi con quello di Napoli [...] La modista in Napoli ha di comune con la grisette di Parigi una parte dell’esistenza dei giorni di lavoro [...] non appena discesa dalla cameretta in cui abita, la modista è introdotta nelle più splendide case, presiede durante l’intera giornata all’abbellimento delle signore, le veste, le adorna >>

 

4. Nel secolo dei lumi non bastava curare i particolari delle acconciature e degli abiti di corte, l’amore per i dettagli si riscontrava anche nel confezionare un altro capo di lusso, l ‘ “uniforme civile”.

 

La Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze aveva messo in mostra nel 1997 una serie di “abiti storici” di diversa provenienza geografica, tra i quali vi era una livrea cerimoniale, risalente all’ultimo quarto del XVIII secolo, una manifattura dell ‘ Italia meridionale.

 

Per essere precisi, con il termine “livrea” s’indicava << l’abito degli stipendiati a diretto servizio di una persona >> mentre l ‘ “uniforme civile” era quella dei << funzionari che rivestivano alla corte un ruolo di pubblica autorità >>

 

5. Il capo in questione è una livrea cerimoniale o “di gala”, tipico modello settecentesco in velluto di seta rosso, caratterizzato da sottoveste lunga senza collo né maniche, chiusa da quattordici bottoni; calzoni al ginocchio chiusi con cinque bottoni, su baschina a tre bottoni con taschini anteriori tagliati e laccio posteriore; marsina tagliata alla francese senza collo, con dodici bottoni privi di asole corrispondenti; falde scampanate, maniche dritte e paramani chiusi, a tre bottoni ornamentali; tasche con patte sagomate e tre bottoni; dorso a fianchette, code a doppi piegoni sormontati da bottoni, spacco centrale entro fondi piega.

 

Tutto il completo è listato di gallone dorato, che si dispone anche lungo lo spacco ed entro i doppi piegoni laterali, e – in duplice rango – sui paramani, intorno alle tasche e sulle falde della sottoveste.

 

Un gallone di diversa tipologia è al bordo dei calzoni; la fodera della marsina è in gros di seta bianco.Alcuni esperti di storia del costume hanno fatto notare quanto questa livrea conservi le fogge tradizionali dell ‘ “abito da parata” del Regno delle Due Sicilie, in ogni caso la sua destinazione è di una certa importanza, infatti l ’ accostamento di rosso e oro e l’impiego del velluto e delle paillettes oro e argento sui bottoni e sul gallone, ne indicherebbe l’uso durante cerimonie in nobili casate, sconosciute fino ad ora perché l’assenza di stemmi gentilizi non ne ha permesso l’identificazione.

 

La funzione della livrea come abito rappresentativo di una casata o di una dinastia reale è testimoniata dalla cronaca storica6: nel 1734 Gaeta capitolò e Carlo III entrò nella città a cavallo; nel 1738 questa stessa città ebbe l’onore di ospitare il sovrano e Maria Amalia, giovani sposi, organizzando per loro un sontuoso banchetto; in cambio Carlo III concesse a Gaeta il titolo di “Fedelissima” e una livrea, pari a quella della Real Casa.

 

Essa veniva indossata dai servi ed era in panno blu, ornata da trine di seta con i colori misti bianco e amaranto; aveva bottoni d’argento, sui quali c’era in rilievo lo stemma della città, ripetuto anche sul lato sinistro del petto; i calzoni erano corti, sempre in panno blu, e le calze bianche.

 

Il cappello era un bicorno con bordo d’argento e fiocco bianco-rosso e le scarpe in cuoio con fibbia d’argento.

 

Sarebbe stato bello e, volendo essere pragmatici, utile all’economia se fossero esistiti nel Regno di Napoli dei veri e propri “atelier” in cui avrebbero potuto lavorare disegnatori e sarti per confezionare gli abiti dell’aristocrazia, ma, nonostante alcuni tentativi, questo non si realizzò.

 

I prodotti, realizzati in quello che sarà il setificio di San Leucio, furono sì venduti al pubblico in due botteghe, l’una accanto agli stabilimenti, l’altra a Napoli in Via Sedile di Porto, ma si trattava di tessuti, non di abiti interi.

 

Vediamo come nacque questa idea.Carlo di Borbone era un estimatore delle stoffe francesi, infatti affidava ad un sarto parigino la realizzazione dei capi del suo guardaroba.

 

Nel 1742 volle che venisse aperta a Napoli una fabbrica di sete, all’altezza di quelle parigine, e decise che fosse ubicata a San Carlo alle Mortelle e che fosse diretta dal francese Trouillieur e dal piemontese Gallan.

 

L‘ “esperimento” durò poco, ma non svanì l’interesse dei sovrani per la seta, la regina Maria Amalia volle infatti che nel 1757 si stabilisse a Caserta l’allevamento dei bachi da seta, premessa importante per il futuro setificio di San Leucio. 

 

Nel 1778 il Re Ferdinando IV decise di dare avvio alla manifattura serica di San Leucio e incaricò l’architetto Francesco Collecini di trasformare quel sito, che fu chiamato San Leucio dall ’omonimo monte e che proprio suo padre Carlo III aveva acquistato nel 1750 dai principi di Caserta, i Gaetani di Sermoneta, in fabbriche che producessero tessuti.

 

L’antico casino baronale divenne corpo centrale avanzato di un grande edificio a pianta rettangolare con cortile interno comprendente le stanze per la trattura, la filatura e la tintura della seta.

 

Al secondo piano, lo stesso appartamento reale comunicava con le stanze dei telai.

 

Nell’edificio ampliato, il macchinista fiorentino Paolo Scotti si occupò di istallare la manifattura che funzionava grazie a macchine animate dal rotone piantato in un sotterraneo del fabbricato e spinto da un corso d’acqua proveniente dal Condotto Carolino.

 

Tra il 1783 e il 1787 si sistemarono nel Casino reale del Belvedere la filanda, i filatoi, ed i telai con la supervisione di esperti stranieri; nel 1789 esistevano già circa 70 telai per calze e 30 per stoffe; negli anni novanta del Settecento si iniziò la costruzione di una grande filanda, attivata a braccia, che fu completata nel 1814 e che dal 1822 in poi fu messa in funzione utilizzando l’acqua come forza motrice.

 

Nonostante esistessero in Terra di Lavoro questi setifici del Real sito di S. Leucio, accennavamo ad inizio paragrafo che i lussuosi abiti degli aristocratici e della Famiglia Reale erano pregiate manifatture non confezionate nel Regno di Napoli, ma all’estero.

 

Lo stesso Galanti (già citato nel paragrafo 2.1) osservava che : << Si fabbricano in Napoli stoffe tanto semplici, quanto in oro ed in argento di gran prezzo [...] tutte queste manifatture non hanno né il lustro, né la bellezza di quelle di Lione [...] non ci mancano i materiali, ma ci mancano le scuole [...] la scuola che si è eretta dal re a S. Leucio fa progressi.

 

 I lavori di seta non si debbono riputare di lusso fra di noi, perché la seta è una produzione naturale del nostro suolo, onde quest’arte meritava di esser resa comune in tutte le province [...] quanto porta addosso una persona agiata, tutto o quasi tutto è mercanzia straniera [...] il Re potrebbe forse ottenere la perfezione delle manifatture nazionali, col non fare uso che di esse, e con mostrare disgusto per coloro che vestissero drappi stranieri >>

 

7. Anche l’architetto Ferdinando Patturelli, sebbene una trentina di anni dopo rispetto al Galanti, nei suoi scritti usò il condizionale riguardo le potenzialità di S. Leucio ammettendo che: << [...] mercè la protezione accordata a questa Colonia e le sue Reali largizioni è giunta l’Arte a gran perfezione; cosicché potremmo non aver bisogno di manifatture straniere >>.

 

Inoltre, in una nota della sua descrizione di San Leucio, egli specifica: << Primachè questa Fabbrica acquistasse tutto il lustro di una completa manifattura, nel 1776 ebbe cominciamento dalla semplice manifattura de’ veli da seta allora molto in uso, che a S.M. Ferdinando piacque introdurre fra noi chiamando espressamente da Torino il Direttore Signor Francesco Bruetti [...] bramando il Monarca medesimo completar la manifattura, ordinò nel 1786 la costruzione di molte fabbriche [...] finalmente nel 1789 S.M. dichiarò Real Colonia siffatto stabilimento >>

 

8. Lo scopo originario dei setifici di San Leucio era sì quello di realizzare stoffe per abiti, infatti l’Archivio di Stato di Napoli conserva un “libro delle matricole” che raccoglie una serie di fatture di pagamento rilasciate agli acquirenti dei tessuti, dal semplice giardiniere di Corte fino al Re in persona, ma oltre alla produzione di queste stoffe non è che esistessero dei veri e propri atelier, delle sartorie e degli “stilisti” per realizzare i vestiti di corte.

 

Nel XVIII secolo i colori delle stoffe erano sgargianti, esemplari di “andrienne” in cotone stampato a motivi floreali dimostrano che ci s’ispirasse alle cineserie tanto in voga nel ‘700, si fece inoltre strada lo “stile tappezzeria”, in pratica con la stessa stoffa si confezionavano sia abiti che tendaggi, quindi accadeva che le stoffe prodotte nei setifici avessero duplice impiego. In seguito, dall’Unità d’Italia in poi, si produssero invece a San Leucio solo stoffe per arredo d'interni abbandonando definitivamente la produzione di quelle per abiti.

 

Un ‘ altra iniziativa di Carlo di Borbone fu la Real Fabbrica degli arazzi.

 

Nel 1737 il sovrano invitò a Napoli i maestri dell’Arazzeria medicea e decise che la nuova manifattura napoletana fosse ubicata in uno stabile a San Carlo alle Mortelle.

 

In un primo momento l’officina operò con lentezza per il ridotto numero di persone, poi nel 1757 ci fu una svolta perché il re stipulò un contratto con un arazziere romano, Pietro Duranti, che si diede da fare per sveltirne l’organizzazione e aggiunse un nuovo laboratorio.

 

Purtroppo le officine vennero chiuse durante i moti del 1799.

 

Ancora a proposito di stoffe, lo studioso Diodato Colonnesi ha tracciato una breve storia del ricamo a Napoli, dal XII secolo, periodo in cui si affermò l’utilizzo della seta in Occidente, importata dall’Oriente, fino al XX secolo.

 

Egli ci riferisce che nei vicoli della città, nel corso dei secoli, si sono avvicendati artigiani di ogni genere, dai “giubbonari” ai “taffettari”, dagli orefici a quelli che si occupavano di confezionare drappi.

 

Nel 1347 la Regina Giovanna I concesse alle categorie artigiane di riunirsi e avere un regolamento per autogovernarsi.

 

Nel Quattrocento e nel Cinquecento il ricamo e l’arte del tessuto in seta ebbero un certo impulso, dimostrato dalle coeve polizze di pagamento dei banchi napoletani citate dallo stesso Colonnesi, e anche nel Seicento numerosi furono i ricamatori che si distinsero per la loro abilità.

 

Nel Settecento, secolo di raffinata eleganza, sia nei conventi che nelle case dei nobili ci si indebitava pur di non sfigurare << i tessuti in seta, i ricami in oro ed argento addobbarono le stanze del patriziato locale e furono composte intere parures di paramenti sacri [...] l’importanza e il costo di lavorazione dei materiali era notevolmente alto per cui le stoffe comparivano nei lasciti testamentari insieme con i quadri, gli argenti, i mobili e i gioielli >>

 

9. Questa digressione ci è servita a constatare quanta attività ci fosse sempre stata nel campo tessile a Napoli e a ribadire il fatto che, ciò nonostante, non siano mai esistite vere e proprie sartorie che, in situ, potessero confezionare gli abiti dei cortigiani e della famiglia reale nel Regno di Napoli.

 

A questo aggiungiamo che, al pari di altre corti, anche quella napoletana s’ ispirava alla moda francese poiché, mentre nel corso del Cinquecento e, in parte, del Seicento tutta la moda occidentale era stata dominata dalla Spagna, nel Settecento fu invece la corte di Versailles a essere il punto di riferimento della migliore aristocrazia europea.

 

Una importante caratteristica del Settecento è questa: poiché man mano cominciarono a diffondersi in tutta Europa le riviste di moda, il gusto francese di quel secolo cominciò a influenzare il costume di più strati sociali, anche di quelli che fino a quel momento erano rimasti esclusi dai problemi dell’abbigliamento.

 

Già verso la fine del Seicento giornali e almanacchi avevano pubblicato figurini di abiti, ma le riviste di moda vere e proprie si affermarono nella seconda metà del Settecento.

 

La studiosa Silvana Musella Guida scrive che il processo di omologazione che, nel campo dell’abbigliamento, investì l’Europa intera fu incrementato dalla << molteplicità delle informazioni, spesso casuale, provenienti direttamente dagli ambasciatori nei paesi stranieri e la consuetudine di inviare bambole di moda >>

 

10. E ancora ci riferisce che, cosa risaputa, le corti italiane presero molti spunti dalla moda francese, fra questi, l’abitudine di indossare l ’ “andrienne”, la tipica veste settecentesca di cui avevamo già ampiamente parlato ad inizio paragrafo, indossata, tra le prime in Italia, da Carlotta Agale d’ Orléans, duchessa di Modena.

 

Anche la “redingote” fu presa in prestito dal repertorio di abiti francesi, anche se sembra che l’origine di questo capo fosse inglese, era una giacca lunga fino al ginocchio che la studiosa Musella Guida ci segnala essere stata raffigurata anche sulle statuine di porcellana di Capodimonte << [la redingote] fu ampiamente impiegata a Napoli, proprio come dimostrano le statuine in porcellana di Capodimonte, assieme al “frac” , pure questo di origine inglese >>

 

11. Un’altra caratteristica dell ‘ abbigliamento delle aristocratiche dame napoletane nel Settecento era la consuetudine di concedersi audaci trasparenze in seta, poi cadute definitivamente in disuso nel secolo successivo, che venivano considerate dai benpensanti fin troppo licenziose.

 

Fonti iconografiche di riferimento per osservare gli abiti della Corte sono certamente i ritratti, eseguiti da artisti come Liani e Bonito, dei nobili e dei reali di Napoli.Francesco Liani ha realizzato nel 1770 una coppia di ritratti, Ferdinando IV e la sua consorte Maria Carolina d’ Austria, che in realtà sono parte di tutta una serie di dipinti, realizzati da vari pittori, che fermarono su tela i momenti più rappresentativi della vita di Carlo III e di Ferdinando IV, da quando erano ancora dei giovani principi fino a quando divennero sovrani.

 

Questi ritratti, che nel Settecento avevano lo scopo di affermare e divulgare l’immagine dei sovrani nei territori del Regno, oggi hanno valore di testimonianza del passato e di fonte documentaria per analizzare l’abbigliamento del ceto sociale più elevato tra le classi del Regno.Ferdinando IV indossa un’elegante giamberga in tessuto vellutato con ampi paramani riccamente ricamati con motivi di fogliame in oro che si ripetono anche lungo i lembi inferiori della giacca fino a salire a metà soprabito, intorno alle tasche, per poi proseguire lungo il bordo della giacca, accanto alle asole, ed intorno al collo.

 

Dai paramani spuntano fuori le maniche merlettate della camicia, un lembo della cui stoffa, leggerissima, fuoriesce anche dall’apertura della giacca sul davanti, quasi come se fosse un foulard.

 

Decora la giamberga una fascia in seta, costante nell’abbigliamento dei nobili, dei reali e dei personaggi che rivestivano importanti cariche politiche e militari.

 

La regina Maria Carolina indossa un’ampia e sontuosa veste caratterizzata da un corpetto damascato che decora il davanti del suo abito, mettendo in evidenza il décolleté “incorniciato”, nella parte inferiore, dal bordo del corpetto e, nella parte superiore, da un nastro, vellutato, che cinge il collo e che è impreziosito da un pendente, la cui forma richiama gli orecchini.

 

L’abito, con maniche rigonfie e merlettate, lascia scoperte le spalle e si arricchisce, dalla vita in giù, di un altro strato che, come un manto più pesante, rende più grandi le dimensioni della gonna e contrasta con l’impalpabilità della stoffa dell’abito che si rivela sotto di esso.

 

I capelli della Regina sono raccolti sulla testa e tenuti fermi da piccoli e preziosi fermagli-gioiello dalla forma di fiore, un’acconciatura, a parer mio, molto più discreta e raffinata di tante altre che prevedevano cuffie smisurate, piume e altri ornamenti stravaganti.

 

Un esempio di queste acconciature è raffigurato in un ritratto della stessa Maria Carolina col piccolo Francesco, erede al trono di Ferdinando, in cui la Regina impreziosisce la sua cascata di boccoli con una specie di cuffia in seta, a forma di cono rovesciato, ornata da merletto nella parte inferiore e da due grandi piume sulla punta e in più arricchita lateralmente da cinque fiori con lunghi steli.

 

Il suo abito è più sobrio di quello indossato nel suo ritratto che abbiamo descritto precedentemente, forse perché ormai Maria Carolina è madre, ha abbandonato vezzose scollature e merletti che si addicono di più ad una principessina e ha preferito farsi ritrarre con un vestito accollato, che copre interamente anche le braccia fino ai polsi e che, grazie all’ampiezza della gonna, funge da base su cui la Regina adagia il neonato Francesco, coperto da una vestina bianca riccamente merlettata sul davanti e intorno alle maniche.

 

Il principe ereditario Francesco fu ritratto in seguito, ormai fanciullo, da Elisabetta Vigée Lebrun con indosso una camicia pieghettata dall ‘ enorme collo tondo, di stoffa velata e ricamata, che fuoriesce dalla piccola giacca decorata con due spille-stemma della Casa Reale. Viene spontaneo paragonare questo ritratto ad un altro, quello di Ferdinando IV, più o meno coetaneo di Francesco, eseguito da Anton Raphael Mengs. Ferdinando, che aveva all’epoca nove anni, indossa una giamberga di velluto blu con ampi paramani rovesciati assicurati alle maniche da due grossi bottoni, sempre di velluto blu, uguali a quelli sul davanti.

 

Sulla sinistra è appuntata una grande spilla-gioiello, raffigurante una croce impreziosita da una miriade di gemme.

 

Sotto la giamberga il principino indossa la sottoveste in raso ramato con spacco sul davanti e falde decorate da ampi ricami floreali.Intorno alla vita, sovrapposta alla sottoveste, una fascia bianca in seta drappeggiata rende l’abito ancora più regale ed “autorevole”, mentre una fascia di seta rossa attraversa in diagonale la sottoveste.

 

I calzoni sono dello stesso velluto blu della giamberga, arrivano appena sotto il ginocchio e lì sono decorati da tre bottoni disposti verticalmente e una fibbia argentea.

 

Le calze sono lunghe, in seta bianca dai riflessi argentei.

 

Dai paramani della giacca s’intravede il particolare prezioso delle maniche merlettate della sottoveste.

 

Alle spalle del giovanissimo Ferdinando, adagiato sul pavimento marmoreo della stanza, c’è un manto reale, rosso porpora con bordo di pelliccia bianca, quasi a ricordarci il suo futuro ruolo di Re di Napoli.

 

Come è diversa questa immagine “ufficiale” di Ferdinando IV bambino da quella che popolava l’immaginario collettivo di un Ferdinando “scugnizzo” che, al pari del protagonista de “Il principe e il povero”, di Mark Twain, si racconta indossasse poveri stracci e s’introducesse nei vicoli popolari.

 

I due ritratti, raffiguranti padre e figlio alla stessa età, ma ovviamente in epoche diverse, evidenziano i cambiamenti che vi furono nella foggia degli abiti; la giamberga del giovane Francesco I è più corta e le maniche sono piccole, aderiscono ai polsi e sono decorate da due bottoni della stessa stoffa vellutata della giacca, nulla a che vedere con gli enormi paramani dell’abito di Ferdinando.

 

Anche le spille-gioiello e la fascia diagonale sono, nel ritratto del principe ereditario Francesco, di dimensioni ridotte.Ancora di Francesco Liani sono due ritratti di Ferdinando e Maria Carolina a cavallo dei loro rispettivi destrieri, dalle chiome ornate di nastro per l’occasione e dalle gualdrappe vellutate e ricamate in oro.

 

Il Re indossa una giamberga blu scuro con bottoni dorati e con fodera, collarino e polsini rossi. Blu scuro sono anche i calzoni fermati al ginocchio da fibbia dorata e cinque bottoni disposti verticalmente.

 

Le lunghe calze bianche spuntano dagli alti stivali in pelle, chiusi da stringhe.

 

In testa il classico tricorno nero con bordo di stoffa dorata e coccarda rossa.

 

Maria Carolina ha un abito simile, seppure in versione femminile, composto da lunga giacca, gilet e gonna blu scuro, in una stoffa che a vedersi sembrerebbe raso, guanti bianchi, stivali alti e, sul capo, tricorno nero bordato di piccole piume bianche.

 

La possibilità di osservare Ferdinando IV e la sua famiglia in abiti, diciamo, borghesi ci è data in un dipinto di Angelica Kauffmann dall’ambientazione esterna, quasi si trattasse di una foto scattata ai sovrani in un pomeriggio in cui essi, lontani dagli impegni ufficiali, desiderano trascorrere il tempo serenamente, a contatto con la natura e circondati dai loro sei figli.

 

Il Re è al centro della composizione e indossa gilet, con doppia fila di bottoni, e calzoni, questi ultimi fermati al ginocchio da cinque bottoni disposti verticalmente e da una fibbia, entrambi color cammello; il soprabito è una giacca dalle lunghe falde, marrone, con paramani, non molto larghi, dai quali sporgono le maniche bianche della camicia indossata sotto il gilet.

 

Le sue lunghe calze sono bianche e le scarpe, di pelle nera, hanno una grossa fibbia metallica di chiusura.Alla destra del sovrano vi sono una delle due dame di compagnia e uno dei quattro figli presenti nel dipinto; la fanciulla, che è ritratta mentre suona un’arpa, indossa un abito lungo, la cui stoffa leggera, color cremisi, pare velata; il vestito è ingentilito da un corpetto beige, lievemente merlettato, il cui motivo orna, all’altezza del gomito, anche le maniche rigonfie; sovrapposto alla veste vi è un grembiule, anche esso beige, che suggerisce il ruolo della giovinetta, cioè semplice dama di compagnia.

 

Nel Settecento gli abiti dei bambini non erano altro che delle riproduzioni in miniatura di quelli degli adulti. In questo dipinto ciò è vero per la principessina, che è accanto alla Regina e che praticamente indossa una versione rimpicciolita del suo abito, solo più corto, ma non può dirsi lo stesso del principino.

 

Egli è accanto alla dama di compagnia e accarezza un levriero e il suo abbigliamento non ripropone quello degli adulti, anzi, la camiciola e i calzoni, lunghi fino alla caviglia e fermati in vita da una fascia, lo fanno assomigliare quasi ad un paggetto di corte. 

 

Un vestito quasi identico è indossato dall’altro principino, alla sinistra del sovrano, seduto su un alto cuscino di velluto rosso posto ai piedi della seconda dama di compagnia, che è vestita e pettinata in modo identico all’altra e che, sul suo grembo, tiene il più piccolo dei figli della regale coppia.

 

Dipinti, stampe ed acquarelli, molti dei quali conservati nel Museo di S. Martino, sono documenti preziosi per osservare l’abbigliamento settecentesco nobiliare, dai Reali, come Ferdinando IV in uniforme di Colonnello di Cavalleria del Reggimento “Re”, alle personalità della politica, come il Marchese Tanucci ritratto da un ignoto artista, dagli aristocratici cavalieri alle personalità della scena militare, come l’inglese John Acton, ritratto, in un’incisione di F. Bartolozzi, in uniforme di Tenente Generale dei Reali Eserciti con fascia e placca del R. Ordine di S. Gennaro.

 

In conclusione diciamo che gli abiti della Corte del Regno di Napoli nel Settecento rispecchiano il prestigio della dinastia borbonica, anche se, per mancanza di pregiate materie prime, atelier e disegnatori napoletani sul posto, risultarono fortemente influenzati dalla moda francese e privi quindi di caratteristiche che li distinguessero da quei modelli indossati un po’ in tutte le regge europee.

 

 

 

Capitolo III

 

Profilo socio-antropologico della società del tempo attraverso l’analisi dei costumi

 

Credo che i “monzù”, nomignolo col quale i napoletani chiamavano ironicamente non solo i cuochi al servizio della Corte, ma anche i forestieri che visitavano la città e che può essere considerato la traduzione partenopea del termine francese “monsieur”, visitassero la Capitale del Regno nel Settecento con lo stesso spirito di un bambino che si aggira in un mondo fantastico, dalle pendici del Vesuvio fino a scendere verso il mare, attraversando una miriade di vicoli, piazze e quartieri brulicanti di gente.

 

L’attenzione di questi visitatori, gentiluomini europei, sarà stata certamente rapita dall ‘ eterogeneità delle persone che si osservavano a passeggio per le strade della città: adulti e bambini vestiti di poveri stracci si contrapponevano ad altri riccamente abbigliati, gli abiti delle dame, confezionati con sete preziose, e le uniformi scintillanti contrastavano con le pezze dei mendicanti, alle veloci carrozze dei nobili, che sfrecciavano tra la folla rischiando d’investire qualcuno, si opponevano i lenti carretti trainati dagli asini.

 

Nei pressi del Golfo c’erano i luciani fieri dei loro vascsoi colmi di pesce, mentre nel ventre della città c’era la gente dei vicoli, vestita di “mantesini”, casacche e camicioni laceri, che baciava i santi tabernacoli, i quali furono << il primo esperimento d’illuminazione delle strade >> suggerito, durante il regno di Carlo III, da Padre Rocco e << ben presto tutti gareggiarono per procurare l’olio alle lampade poste davanti alle sacre immagini >>

 

1. Se questi forestieri avessero dovuto tracciare un profilo della società napoletana settecentesca basandosi sull’analisi degli abiti osservati sul momento, avrebbero sicuramente affermato che essa era diversa da qualsiasi altra al mondo, perché a Napoli non si assisteva ad una separazione netta fra ricchi e poveri, potenti e miserabili passeggiavano invece tutti insieme e condividevano le stesse abitudini persino a tavola, ne era un esempio la presenza della “minestra maritata”

 

2. sia sulle tavole della gente del popolo che su quelle della Corte.Il Museo di San Martino conserva un quadro di Fabris, “Festa di Posillipoc”, che è la prova di tutto ciò: in esso l’aristocrazia vestita con gli abiti più lussuosi condivide con il popolo vestito con poco gli stessi spazi e la stessa spensieratezza. In uno dei suoi saggi, la studiosa Maria Cristina Masdea non a caso ha definito le scene di Fabris : << specchio di un mondo senza lotte di classe [...] le immagini dei costumi ci rimandano una realtà in cui alcuni dati concreti sono descritti con precisione, ma all’interno di una visione generale, da Arcadia felice, che escludeva quanto non fosse gradito alle raffinate sensibilità dei destinatari di qcuelle immagini >>

 

3. Avevamo infatti accennato nel Capitolo II che se si volessero trovare nei disegni di D’Anna, Santucci e Berotti, nei dipinti di Fabris e nei paesaggi di Hackert tracce di quei problemi sociali che affliggevano il Regno di Napoli nel Settecento, non ne troveremmo, perché questi artisti hanno rappresentato persone che, solo apparentemente purtroppo, vivevano sereni in una terra da sogno.

 

I problemi che affliggevano la società del Regno erano invece tangibili, erano conseguenza di molteplici fattori, primo fra tutti il fatto che nei secoli non era mai esistita un’organizzazione autonoma, né civile né militare, di questo territorio perché tanti, e provenienti da diverse nazioni, sono stati i dominatori che si sono avvicendati e questo aveva impedito alle popolazioni del Reame di avere dei punti di riferimento; mancò loro una coscienza nazionale, esse non facevano in tempo ad adattarsi ad una situazione storica che subito se ne presentava un’altra.

 

Questa “promiscuità” socioculturale ebbe i suoi lati positivi, arricchendo di consuetudini e tradizioni il vivere quotidiano e rendendo più originale l’abbigliamento delle persone.

 

Lo studioso Cirillo Mastrocinque ha in proposito osservato: << [...] lo storico del costume si orienta a fatica [...] le cause che rendono il costume popolare napoletano così confuso, vario ed indecifrabile sono molte.

 

Innanzitutto la varietà della composizione etnica, la presenza continua degli stranieri e la facilità ad assorbire le loro usanze da parte della popolazione >>.

 

4. Purtroppo anche nei periodi in cui non vi furono scossoni, e alla guida del paese rimasero gli stessi governanti per alcuni decenni, furono comunque commessi errori nella gestione delle ricchezze, non si seppero incentivare le attività che, in qualche modo, erano già avviate e quindi, dal punto di vista economico, non tutti i territori del Regno fecero progressi.

 

Uno dei tanti esempi di quanto appena detto è quello che avvenne negli anni del Regno di Ferdinando IV: nel decennio 1770-1780 si assistette ad uno spreco di risorse e di denaro che invece si sarebbero dovuti impiegare in alcune località del Reame, come la Calabria e la Puglia, in quest’ultima provincia in particolare si sarebbero dovuti riorganizzare i porti che, privi di efficienza, versavano in pessime condizioni.

 

Nonostante tutto, cle varie classi sociali, ciascuna a seconda delle proprie possibilità, non si demoralizzavano e non rinunciavano ad un vestiario che degnamente le potesse rappresentare.

 

Dalla borghesia alle classi rurali, dal paese più piccolo e sperduto alla città, ciascuno ci teneva a vantare un proprio costume e, visto che la società napoletana era composta da differenti tipologie di personaggi, spesso erano proprio gli indumenti a renderli riconoscibili.

 

Varia è l’aggettivo che meglio qualifica la società napoletana del tempo anche perché varie erano le sue credenze e tradizioni, c’erano ad esempio donne che sugli abiti preferivano indossare monili specifici, come corallo rosso e ori di bassa caratura, che loro ritenevano essere capaci di assorbire gli influssi malefici a contatto col calore del corpo; altre che continuavano ad adottare e tramandare un vestiario esistente da molti secoli, come le donne di Procida, il cui abbigliamento di matrice greca attirò quegli artisti e quei letterati europei che nel Settecento visitavano Il Regno di Napoli in cerca di qualsiasi segno lasciato dalla Civiltà Classica.

 

La società del tempo tradiva i suoi influssi multietnici anche nella termcinologia usata per definire i capi d’abbigliamento, facciamo alcuni esempi: “gonnella” era presente nei documenti napoletani fin dal XV secolo ed era sinonimo di veste femminile; “camisas moriscas” era il termine con cui nel sud della Spagna si chiamavano quelle stesse camice usate nell’Italia meridionale nel Settecento; “scollatura gallica” definiva un corpetto che mettesse in mostra le forme secondo la moda francese, mentre in seguito con “l’ accollatura iberica” gli Spagnoli imposero alle napoletane che quelle stesse forme venissero coperte con l’applicazione di crespi di seta alle scollature; la “zimarra”, versione italiana della “ropa”, era il nome del soprabito aperto sul davanti, lungo quasi fino alla caviglia, con le maniche strette, i bottoni e le rifiniture in filo d’oro.

 

Esso era un capo di origine orientale appunto, per la precisione stile ottomano, il che s’intuirebbe già solo ammirando la stoffa lussuosa di questo soprabito, raso rosso o verde, con delle tipiche cocciole d’oro che cominciavano dalle estremità e, percorrendo il collo, si distribuivano lungo le spalle; il termine “manyossa”, in italiano “magnosa”, copricapo femminile geometrico e rigido, era di origine aragonese; la voce napoletana “scioccaglie” (col richiamo a ’fiocco‘) è la variante di “cioccàglio”, dallo spagnolo “chocallo”, cioè orecchino; il “toccato” era invece un fazzoletto in seta che teneva ferma sulla testa una cuffia, anch’essa in seta, e il suo nome deriva dalla “toca” usata in Spagna e ivi importata dagli Arabi.

 

A proposito di questi ultimi, alcuni studiosi hanno affermato che, fin dal periodo in cui la Spagna venne a contatto con la civiltà musulmana, i Castigliani provarono un forte interesse nei confronti del loro abbigliamento lussuoso, del loro stile esotico e quindi presto si diffuse in terra iberica una vera e propria “maurofilia”, importata poi nel Regno di Napoli.

 

Oltre alla varietà, un’altra caratteristica della società regnicola, che viene fuori dall’analisi dei costumi delle popolazioni che la componevano, è la sua dignità.

 

Osservando gli uomini e le donne ritratti in costume dai vari D’Anna, Santucci, Berotti, Della Gatta e Fabris ci si fa l’idea di un popolo che pur non essendo muto e mansueto, non era neppure eccessivamente sboccato, chiassoso e rivoltoso come veniva troppo spesso dipinto.

 

Si trattava invece di persone che, al di là della classe sociale a cui appartenevano, erano capaci di agire e di decidere, ma forse i tempi non erano maturi perché venisse fuori tutto questo indagando sotto il profilo socio-antropologico quella società.

 

Quelle immagini dignitose dei tanti popolani e borghesi, che erano stati rappresentati con gli abiti tipici dei loro paesi, si diffusero, anche all’estero, grazie al fatto che furono vendute e, cosa più importante, circolarono a Corte poiché furono riprodotte su raffinatissimi servizi di piatti, su zuccheriere, su caffettiere, su coppe, su servizi da scrittoio, ecc.., in porcellana di Capodimonte, preziosi veicoli che permisero a quegli umili abitanti del Regno di “entrare” a Corte, di accedere addirittura alle stanze del Re, anche se non di persona, di dimostrargli che fuori della sua lussuosa Reggia esisteva tutto un popolo da scoprire, sparso sia nei territori più prossimi alla Capitale che in quelli tagliati fuori dalle vie di comunicazione con essa.

 

Parlavamo della dignità di queste persone, credo che le immagini dei loro costumi contribuiscano a restituire loro quel decoro che gran parte della vecchia storiografia gli avevca tolto, dipingendoli come persone divise in fazioni per colpa dei Baroni, pigre, intiepidite nel valore militare, addirittura abituate ad una vita nomade e randagia, e contribuiscano a smentire quella parte di storiografia che affermava che anche i visitatori stranieri avessero le stesse impressioni e considerassero questa gente, specie quella che popolava i territori più impervi, quasi inselvatichita dall’ambiente circostante.In effetti fino a quando non si sono approfonditi gli studi di antropologia ed etnografia e non si sono analizzati tutti gli aspetti, positivi o negativi che fossero, caratterizzanti la società nel Settecento, molti studiosi ne hanno tracciato un profilo negativo un po’ in tutte le nazioni.

 

La plebe, chiamata così con una punta di disprezzo, veniva descritta come una massa inconsapevole di sé, preda delle superstizioni perché ignorante e contrapposta ad un’aristocrazia ovviamente troppo presa dai propri lussi per accorgersi di essa, ma lo studio delle sue tradizioni, compreso il suo abbigliamento, la riscatta.

 

In Italia gli studiosi che si sono dedicati ad approfondire lo studio delle tradizioni popolari di tutte le regioni hanno comprecso che, nell’ambito specifico del costume e del gusto, è proprio il Settecento il secolo in cui vi furono i mutamenti, in positivo, più evidenti, ed in particolare la Napoli di quel periodo fu un crogiolo di arte, cultura e iniziative di ogni genere.

 

Questi percorsi di ricerca che miravano a tracciare un profilo socio-antropologico della società del tempo, attraverso lo studio degli abiti e delle tradizioni, si consolidò nell’Ottocento. La studiosa Elisa Miranda, in un saggio riguardante i costumi di due province del Regno di Napoli, Terra di Bari e Terra d’Otranto, ha scritto << Che il costume cccostituisse un campo semantico privilegiato attraverso cui indagare le condizioni di un regno e lo stato della sua popolazione, fu chiaro anche ai tecnici che lavorarono alla preparazione dei questionari da distribuire ai redattori della ‘statistica’ del Regno di Napoli nel 1811 >>

 

5. ‘statistica’ dalla quale emerse, attraverso l’indagine sugli abiti della popolazione appunto, il tenore di vita, le abitudini e le tradizioni di quella gente in quelle particolari aree geografiche.

 

Dai documenti si evinsero le loro abitudini, si scattò loro una fotografia scoprendo che si trattava di modeste comcunità rurali che potevano disporre semplicemente di lana, cotone e lino, che effettuavano il cambio della biancheria ogni quindici giorni e quello degli abiti due volte l’anno, che alle donne spettava la lavorazione delle stoffe e che c’erano delle mense vescovili che procuravano abiti ai più poveri.

 

Gli studiosi risalirono persino alle condizioni di salute di quelle persone, mettendo in evidenza il fatto che, d’estate, a causa di un abbigliamento sbagliato, diventavano più cagionevoli: << Nell ’ està dimettono la casacca, i calzoni e le calze per lo più e vestono d’abiti più leggieri, ma quasi sempre travagliano colla semplice camicia e sottocalzone, vestitura troppo debole e che suole cagionare dell’alterazione nel traspirabile, massimamente quando colle stesse vesti si coricano nelle notti fresche e di diversa temperatura >>

 

6. A queste osservazioni dei redattori statistici del 1811, che provano quanto sia stato utile lo studio e l’analisi dei costumi per capire la società del Regno di Napoli in quel determinato periodo storico, ne affianchiamo altre sempre tratte dal saggio della Miranda: << Viene considerata come non molto salubre la forma di vestire dcelle donne perché non portano ben guardate le cosce e parte del busto, permettendogli libero lo accesso alle impressioni dell’aria ed alla diversa temperatura >>

 

7. Inoltre vengono evidenziate le diverse abitudini della popolazione a seconda delle zone di residenza: << La nettezza della biancheria e degli abiti per ambi i sessi corrisponde al maggior o minor comodo, ed alla decenza e proprietà de’ luoghi poiché le città che sono più civilizzate hanno ne’ loro abitanti maggior politezza, lo che non si vede nelle terre e casali >>

 

8. Più in generale possiamo affermare che le forme di abbigliamento dei diversi popoli, legati ai differenti stadi di sviluppo delle società umane, sono determinate dalle cause più varie, quali, oltre il clima, i particolari momenti storici, il grado di civiltà, le regole morali, il senso estetico; e sono inoltre influenzate dall’organizzazione politica, dalle strutture economiche, dalle manifestazioni artistiche.

 

Senza però allontanarci troppo dal periodo storico trattato in questa tesi, diciamo che, nel tentativo di tracciare un profilo socio-antropologico della società del Regno di Napoli nel XVIII secolo attraverso l’analisi dei costumi, è stato necesscario “affacciarci” per un attimo alla soglia del XIX secolo per capire che quel modo d’indagare la società, che caratterizzerà l’Ottocento, pose le basi nel Settecento (del resto la stessa “missione” che nel 1783 fu affidata ai pittori D’Anna e Della Gatta, al quale poi subentrò Berotti, da Ferdinando IV è già una “campagna ricognitiva”, una specie d’inchiesta, come più volte abbiamo sottolineato nel Capitolo II).

 

E sempre in tema con quanto appena detto Giuseppe Galasso ha affermato che, appunto nel ‘700, la cultura cominciò ad essere concepita << non come studio accademico, non come roccaforte della dottrina distante dal volgo profano, ma anzi profondamente sposata alla realtà della vita e profondamente partecipe alla vita degli uomini >>

 

9. confermando il fatto che proprio in quel secolo ci si sentì quasi in dovere di approfondire la conoscenza della società partendo dal basso, dallo studio della quotidianità, delle tradizioni e dei costumi.

 

Nel caso specifico di Napoli, solo dal regno di Carlo III in poi la città acquistò la dignità di un’importante Capitale e, cessando di vivere ai margini di un grande impero, quello spagnolo, come aveva fatto per circa cdue secoli e mezzo, raggiunse la stabilità necessaria perché vari studiosi meridionali, primi fra tutti quelli di scienze sociali, indagassero con precisione i vari aspetti della società del tempo, non più questioni astratte o di marginale importanza, ma fatti che coinvolgevano i territori del più vasto regno d’Italia e che era naturale analizzare.

 

Si formò man mano una classe di esperti che si occupassero di problemi economici e di governo, che avviassero delle riforme, che si dedicassero all’impegno civile e alla conoscenza della società, delle persone nella loro quotidianità.

 

Ad esempio, anche il modo in cui le persone festeggiavano e gli abiti che indossavano durante le principali ricorrenze ci aiutano a capire come fosse la società napoletana del Settecento e quali fossero le sue “reazioni” nei confronti dei riti collettivi.

 

Il Carnevale è uno di questi e, pur avendo come elemento in comune il divertimento e la spensieratezza, è un valido osservatorio perché veniva considerato diversamente a seconda dell’appartenenza ai vari ceti sociali.Per il Re il Carnevale era una festa che conteneva un <<enorme potenziale propagandistico >>

 

10. e che gli consentiva di <<canalizzare le tensioni popolari dentro uno spazio chiuso di licenza controllata >>

 

11. per i nobili era l’occasione di esibirsi, di esercitare il proprio ascendente sui principi e signori che, da ogni parte d’Europa, venivano a Napoli per assistere ai festeggiamenti ed era l’occasione di “esorcizzare” le proprie paure, nel momento in cui, mascherati da musulmani, paradossalmente s’identificavano proprio nei nemici di sempre delle corti dell’Europa mediterranea; per il popolo, accantonata l’immagine pittoresca della festa vera e propria, del momento in cui, affamato, assalta letteralmente l’albero della “Cuccagna” ricco di cibi di ogni genere, era persino un’occasione di guadagno.

 

Il francese Goudar ci riferisce che in occasione del Carnevale del 1774 << tutte le spese del pubblico divertimento hanno formato una circolazione di circa seicentomila ducati, che sono usciti dalla borsa del ricco per entrare in quella del popolo [...] il consumo complessivo è cresciuto; il mercante ha venduto; l'artigiano ha guadagnato; e il popolo minuto in mezzo a questa festa ha trovato una risorsa per i suoi mali >>

 

12. Per la Chiesa, che fin dai tempi del Concilio di Trento aveva previsto che fosse eliminato il culto degli elementi folklorici, considerati pagani, il Carnevale era una specie di “tempo del demonio” in cui uomini e donne si abbandonavano ad ogni sfrenatezza.

 

In particolare per le autorità religiose di Napoli il Carnevale era un evento che doveva essere sottoposto a severe restrizioni, vista la licenziosità di certi costumi, come i travestimenti che prevedevano che le donne, nei panni di amazzoni o prostitute, si esponessero mezze nude per strada o nei veglioni privati.

 

Dodici incisioni in rame di Raffaello Morghen raffigurano un interminabile corteo organizzato nel 1778 dai nobili in collaborazione con la corte.

 

Si trattava di personaggi, circa quattrocento fra donne e uomini mascherati, raffiguranti il Gran Visir con i suoi schiavi, ambasciatori siamesi, cinesi, persiani, indiani, eunuchi e sultane, una delle quali era la Regina Maria Carolina, e il Re, quest’ultimo non nei panni del Gran Signore ma in quelli del pascià poiché nelle rappresentazioni carnevalesche vigeva una specie di “regola dell’inversione” dei ruoli.

 

Gli aristocratici da un lato e la plebe dall’altro erano attori-spettatori che giocavano a mescolarsi fra loro e, tornando a quanto detto all’inizio di questo capitolo, si ritrovavano servi e signori a coesistere pacificamente a Napoli anche durante i periodi festivi.De Bourcard annotò questa “coesistenza”, caratteristica della società napoletana, nella sua opera “Usi e Costumi di Napoli”, facendo riferimento ad una particolare ricorrenza: << La festività del dì otto settembre, sacro ad onorare la ricorrenza del Nascimento di Nostra Donna, è per noi una delle più liete e delle più solenni giornate. [...] Istituita dall’immortal Carlo III pel ricupero del Regno, volge ormai più di un secolo che questa festa di Piedigrotta rallegra lo spirar dell’estiva stagione ed il cominciamento dell’autunno [...] la più grande delle feste napolitane per la parte che vi prendono tutte le classi della popolazione [...] suol cominciare il difilarsi delle milizie, passando dinanzi alla Reggia sotto gli sguardi di S.M. il Re che con S.M. la Regina e con tutta la Famiglia Reale intrattiensi ad osservarle dalle ringhiere [...] stuoli di popolani, sciami di contadini, carrozze di gentiluomini e di dame, compagnie di forestieri veggonsi ingombrare la Riviera di Chiaia, la Villa Reale e pigiarsi appo i dintorni del Santuario di Piedigrotta >>

 

13. La creatività e la varietà, le due caratteristiche che abbiamo considerato essere specifiche della società napoletana del Settecento, si riscontravano anche nella cucina: << Napoli divenne luogo di confronto delle grandi cucine europee dopo il 1768; Maria Carolina D’Austria impose a corte il gusto francese, imitata dall’aristocrazia e dalla grande borghesia che, adattandosi come sempre alla moda di corte, assunsero al loro servizio i cuochi (“monsieurs”, i “monzù” a cui accennavamo ad inizio capitolo) [...] I cucinieri reali distribuivano le interiora al popolo ( les entrailles ) e le donne che se le contendevano erano chiamate “zandraglie” >>

 

14. Nonostante queste contaminazioni straniere, i maccheroni restavano sempre il piatto più amato << sono la forma onde lo straniero contrassegna la plebe napoletana >>

 

15. e la figura che meglio prova tutto ciò è il “Mangiatore di maccheroni”, la cui immagine venne diffusa in tutta Europa grazie a stampe tratte da incisioni su rame, dipinti e statuine del Presepe che lo raffiguravano.A proposito della lettura demoantropologica che può essere fatta dei costumi settecenteschi napoletani e della conseguente analisi della società che se ne ricava, lo studioso Enzo Spera ha osservato che le immagini della popolazione del Regno, ritratte dai vari Hackert, Celebrano, Bonito e Traversi, << danno una visione del popolo più attardata di quanto non sia presente non solo in altri artisti contemporanei, compresi gli stessi “figurinisti” e pittori napoletani di “genere”, ma anche in relazione al modo con cui i mestieri popolari più umili erano stati rappresentati, più di un secolo prima, in Francia da A. Doy nel 1634 nella serie dei “Les cris de Paris” e ancor prima da J. Callot; e successivamente, in pieno XVIII secolo, da A. Watteau e da E. Bouchardon, negli studi ripresi tra “il basso popolo” [...] per non dire poi dell’attenzione grafica ed illustrativa con cui erano state descritte e proposte, tra il 1751 e il 1772, le attività artigianali e preindustriali nelle tavole dell ‘ Encyclopédìe, attività quelle parallelamente presenti anche nella Napoli del tempo.

 

Un modo di guardare al popolo, o meglio alla sua immagine addomesticata e muta, che non corrisponde a quella che di esso vien data, per esempio, nella Commedia dell’Arte; [...] I costumi ritratti è pensabile che siano stati rilevati e documentati strumentalmente [...] dovevano servire forse come modelli per rappresentazioni sul tipo dei tableaux vivants e delle scene di vita campestre e popolare evocanti le tante e diverse realtà locali, con uno spirito e gusto quasi presepiale >>

 

16. Lo studioso paragona all ’ immagine che della società napoletana settecentesca viene data l’altra, della società veneta, filtrata attraverso la commedia goldoniana, che è quella di gente vera, capace di giudizio, di parola e di azione, che non fosse solamente un modello per statuette in biscuit, vedute, paesaggi e statuine del presepe, né fosse una << rappresentazione iconografica edulcorata e rassicurante, usata esclusivamente come base di ornato e di decorazione esotico-nostrana >>

 

17. e ancora ci fa notare quanto fossero avanti negli studi socio-antropologici, rispetto al Regno di Napoli, paesi come la Francia e l’Inghilterra che del popolo, delle attività artigianali, degli usi e dei costumi davano descrizioni curate e documentate nelle varie enciclopedie stampate nella seconda metà del ‘700. Queste considerazioni confermano quanto abbiamo già sottolineato in questo capitolo, cioè che, all’epoca dei Borbone, i tempi non erano maturi perché si tracciasse un adeguato profilo socio-antropologico della società del Regno di Napoli.Anche per quanto riguarda il campo specifico dell’abbigliamento militare gli studiosi sono riusciti solo da poco a mettere ordine, da un punto di vista antropologico, negli studi sui modelli e sulla storia delle varie uniformi dei vari territori italiani preunitari.

 

Il Comandante francese E. L. Bucquoy, autore nel 1953 del “Breviaire du Collectionneur d’uniformes”, precisava, nelle pagine delle più note riviste militari, che solo dal 1947 in poi si è cominciata a diffondere tra gli studiosi la parola “uniformologia”, prima in Svizzera, in Belgio, in Germania ed in Francia, in un secondo momento in Italia.

 

Egli scrisse che la storia e lo studio delle uniformi attraverso i tempi costituiscono una vera e propria scienza, ausiliaria della storia, in genere, e della storia politica, in particolare.

 

Purtroppo in Italia gli studi riguardanti l’uniformologia sono stati caratterizzati dalla discontinuità, negli anni, delle ricerche e degli approfondimenti, che ha causato la frammentazione di una materia tanto vasta da comprendere la catalogazione dei singoli capi che costituiscono il vestiario militare, la conoscenza dell’equipaggiamento dei soldati, lo studio delle epoche e delle Nazioni che videro protagonisti questi eserciti.

 

Anche in questo campo, così come negli studi etnografici ed antropologici, riguardanti i costumi popolari, di cui abbiamo parlato in questo capitolo, il primato negli studi e nelle raccolte sistematiche spetta alle grandi monarchie europee, come ad esempio la Francia.

 

Questa nazione, in cui già nel Sette-Ottocento si scrissero opere sulle uniformi e sugli eserciti, introdusse nel vicino Piemonte l’interesse per questa disciplina ed alcuni studiosi torinesi, sulla scia di quelli francesi, s’incoraggiarono a scrivere la “Dimostrazione delle uniformi delle truppe d’Infanteria quanto della Cavalleria stabilito ne scorsi anni al servizio di S.R.M. Vittorio Amedeo il Re della Sardegna, di Cipro e di Gerusalemme “.

 

Sempre conservata presso la Biblioteca di Torino è un’altra raccolta, la “Tabelle générale des troupes du Roi de Sardaigne avec leur appointements et uniformes “ che, come le altre, è importante perché contiene figurini antichi, raffiguranti uniformi del XVIII secolo.L’esempio del Piemonte ci serve a costatare che gli studiosi si erano ancora una volta resi conto che, per comprendere la storia di una Nazione, la sua società e le sue vicende si doveva approfondire la conoscenza di vari campi, compreso quello dell’abbigliamento popolare e militare.

 

Nel caso specifico del Regno di Napoli nel Settecento, lo studio delle sue uniformi contribuisce a farci capire come, essendo questo un Regno che proprio allora si stava formando, la necessità di organizzarlo e di consolidarlo si rifletteva anche nell’esercito, prima strettamente dipendente dalla Spagna e poi capace di emanciparsi dall’influenza ispanica e di acquistare, mediante una serie di riforme, un’identità “napoletana” e un suo regolamento.

 

Insomma, ancora una volta è attraverso l’analisi dell’abbigliamento, militare in questo caso, che risaliamo allo “stato di salute” di un determinato territorio in una determinata epoca storica, abbiamo dimostrato per l’ennesima volta che ciò che si indossa è frutto dell’epoca in cui si vive e può essere uno dei punti di partenza per condurre un’indagine socio-antropologica su una data società.

 

 

 

Capitolo IV

 

Le stoffe ed i modelli In questo ultimo capitolo faremo una carrellata di quali particolari stoffe e modelli caratterizzassero l’abbigliamento del Settecento nel Regno di Napoli, ma prima di approfondire l’argomento è giusto osservare che questo “viaggio” tra gli abiti, le uniformi e i costumi è stato anche un ’ occasione per provare a capire, attraverso le manifatture, le produzioni e le attività del Regno dei Borbone, quali fossero le condizioni del Mezzogiorno prima dell ’ Unità d’Italia.

 

Abbiamo visto che all’interno della compagine territoriale del Regno c’erano popolazioni eterogenee, eredi di molteplici influssi culturali e custodi delle più svariate tradizioni, così come abbiamo visto che la capitale non doveva invidiare nulla alle altre grandi città europee, anzi vantava, assieme a Parigi, il primato di città più grande d’Europa e, nel panorama artistico-culturale europeo, si affermava come città ricca di iniziative.

 

Molti hanno visto proprio in Carlo III e in Ferdinando IV i fautori di queste iniziative, delle tante attività artistiche a Napoli e, complici le scoperte di Ercolano e di Pompei avvenute durante il loro regno, hanno visto in loro due sovrani capaci di rendere Napoli capitale culturale tanto importante da essere tappa obbligata del Grand Tour dell ‘ élite europea.

 

Alcuni, ad esempio, hanno sottolineato l’apertura internazionale di Carlo III, grazie alla quale s’introdusse nella Capitale l’interesse per le cineserie e per le turcherie; l’attenzione del sovrano per la produzione dei mobili secondo il gusto francese, che “costrinse” gli ebanisti partenopei a raffinare la loro arte apprendendo la particolare tecnica d’intaglio ligneo degli artigiani d’Oltralpe; la vera e propria passione di entrambi i sovrani per l’arte presepiale, al punto che, nella preparazione degli allestimenti, coinvolsero artisti quali Celebrano, Sanmartino, Vaccaro, Viva, Bottigliero; l’incentivazione, da parte di Carlo III, ad avviare le fabbriche della porcellana, a creare vere e proprie botteghe per le maioliche, ad incrementare la produzione di lavori in oro e argento, a tal proposito ci sono persino testimonianze di contatti fra la corte borbonica e gli argentieri parigini, fino ad arrivare all ‘ ideazione della fabbrica degli arazzi e, durante il regno di Ferdinando IV, delle manifatture seriche di San Leucio, delle quali abbiamo parlato nel paragrafo 2.3 .

 

Per quanto riguarda le stoffe, in particolare, diciamo che è stato nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso che la ricerca antropologica sull’abbigliamento popolare si è intensificata perché, secondo quacnto ci riferisce la studiosa Elisabetta Silvestrini in un suo saggio, allora si verificò << un nuovo affermarsi, in Italia, degli studi sulla storia dell’abbigliamento e sulla storia del tessuto, studi effettuati anche attraverso nuove tecniche di analisi e nuove metodologie >>,

 

1. ma che non sono ancora stati sufficienti a colmare determinate lacune.Infatti la difficoltà nell’affrontare questa tesi è stata sia quella di trovarmi di fronte a notizie frammentarie, non tanto sui costumi popolari sui quali, abbiamo appena appreso, si sono realizzate negli anni alcune pubblicazioni, quanto sulle uniformi e sugli abiti di corte, sia quella di scoprire che , in ogni caso, non esistono libri che, in modo unitario e compatto, raccolgano esclusivamente descrizioni e notizie sull’abbigliamento delle classi sociali del Regno di Napoli nel Settecento.

 

Diciamo perciò che questo lavoro vuole essere un piccolo tentativo di colmare questo vuoto e anche l’occasione per fare una radiografia alla realtà del tempo, per vedere come si collcocasse il Mezzogiorno, da un punto di vista sociale, incluse le attività artistiche, quelle manifatturiere e artigianali, nello scacchiere delle monarchcie europee e quanto si riscontrasse del carattere, delle abitudini e del tenore di vita dei singoli ceti sociali, negli abiti indossati sia tutti i giorni, che nelle occasioni e durante particolari festività.

 

La prima cosa che credo sia emersa da questa indagine è che, pur dovendo accontentarsi cdi stoffe più semplici e modelli meno raffinati rispetto all ‘ aristocrazia, le classi medie e piccolo-borghesi riuscivano in cambio a creare una varietà maggiore di capi, ciascuno rappresentativo del proprio paese e legato alle più svariate tradizioni, la gente del popolo poteva insomma spaziare con la fantasia, mentre i nobili napoletani si omologavano alla moda delle altre corti europee, prima quella francese e poi, verso la seconda metà del ‘700, quella inglese, trovandosi intrappolati in canoni stabiliti.

 

Se solo pensiamo alla fantasia con cui le donne del popolo disponevanoc insieme i vari “pezzi” per creare i propri costumi popolari, dal bustino alla gonna, dal grembiule alla camicia, dalla zimarra al corsetto, dal mantello al copricapo, e riflettiamo sulla varietà dei colori, sebbene ricavati in casa, con estrema semplicità, dai succhi vegetali estratti dalle foglie delle piante, ci rendiamo conto di quanto ci sia da scoprire ripercorrendo la storia dei costumi del Regno di Napoli nel Settecento.

 

La stoffa che comunemente si utilizzava per la camicia femminile era il cotone, qualche volta anche la canapa, altre volte la trama era più complessa, formata da fcili di diversi materiali, ad esempio si utilizzavano seta e cotone insieme e poi si arricchiva il capo così ottenuto aggiungendovi merletti e ricami.

 

Anche il corsetto poteva esser confezionato con più materiali, al raso si sovrapponevano magari ricami in oro filato e seta e per foderarlo si usava la tela.

 

Le vesti erano in lana pesante, talvolta foderate nella parte superiore in canapa, bianca o ocra, mentre le gonne erano di seta, lino, cotone e seta tessuti assieme o solo lana, e le sottogonne di cotone.

 

La stoffa dei grembiuli variava dal taffettà, alla lana, alla seta, dac soli o tessuti con filo laminato. Per confezionare i casacchini venivano utilizzati fili di lana, seta e laminato d’argento o d’oro, per i panciotti veniva usato il cotone e per le sopravvesti il maggior numero possibile di stoffe, quali seta, cotone, flanella, ecc.. .

 

Le calze erano quasi sempre in filo di cotone, ma ne esistevano anche esemplari di lana lavorata ai ferri, ed infine i copricapi potevano essere in lana, se si trattava di berretti, in merletto di cotone, se si trattava di “tovaglie”, in tulle di cotone se si trattava di un vero e proprio velo triangolare, in ogni caso, d’inverno si ocptava per i copricapi di lana, d’estate per quelli di cotone.

 

Di questi “fazzoletti”, che venivano usati per coprire il capo, c’erano vari modelli: legati intorno al capo, di cotone fiorato, oppure molto ampi, veri e propri scialli frangiati, impiegati per le occasioni festive, oppure realizzati in cotone bianco, trinato o ricamato, e legati intorno al collo per ricoprire la scollatura.

 

I tessuti variavano inoltre secondo la zona di appartenenza, il pesante abbigliamento degli abitanti di luoghi di montagna era ad esempio improntato a colori scuri e per realizzarlo, oltre alla filatura e alla tessiturca domestica, esistevano anche cardatori ambulanti, venditori di stoffe ambulanti e piccole fiere di paese dove acquistare i tessuti.Fonti indispensabili per conoscere quali stoffe si usassero per confezionare gli abiti, nei vari territori del Regno, erano gli elenchi dotali stilati dai notai.

 

Questi documenti enumeravano capi di vestiario e loro caratteristiche, svelando che spesso nei piccoli paesi si tentava di emulare la moda dei centri urbani, poiché chi preparava la dote per la propria figlia sperava che i suoi abiti non fossero inferiori a quelli dei “cittadini”.

 

Camicie, busti, maniche staccate, gonne, grembiuli, scialli, copricapi e gioielli venivano elencati in atti, poi depositati negli archivi dei vari luoghi, in cui ci si soffermava a descriverne i particolari, come nel caso degli abiti da sposa, dotati magari di tutto un loro corredo, drappi in tessuto laminato dal fondo colorato, sottane, manti in velluto, fazzoletti ricamati, ecc... .

 

Le stoffe che prevalevano erano panni di lana, cotoni, pizzi e merletti, mentre i colori, oltre al classico bianco per gli abiti da sposa, variavano dal rosso al turchino e dal verde al caffè.

 

Diversi erano anche i gioielli, si descrivevano negli atti particolarissime forme di orecchini in oro e argento: “a navicella”, con pendenti, “a mandorla”, a forma di fiore, filigranati, a cerchio, “a cavalluccio”; ancora ciondoli, croci, spille, aghi crinale, collane di corallo, fermagli, corone di rosario di granate, anelli, fili di perle e persino orecchini da ragazzo.

 

Questi dunque alcuni degli oggetti, in preziosi materiali, e alcune delle stoffe posseduti dagli abitanti delle zone rurali del Regno, quella stessa “plebe” che Eleonora De Fonseca Pimentel descrisse con rispetto nel 1799 definendola << quella parte di popolo che comprende non solo la numerosa minuta popolazione della città, ma benanche la più rispettabile delle campagne e se sopra di queste poggia la forza dello Stato, vi poggia nella democrazia la forza non solo, ma la sua dignità >>

 

2. Dunque questi erano per la gente del popolo preziosi lavori, facenti parte del loro patrimonio, se addirittura li troviamo elencati tra i beni dotali.

 

Lavori in lana, cotone e altre fibre, realizzati nei vari territori del Regno, la stessa Napoli produceva baiette, londrini, rattine,

 

3. la Puglia vesti e coperte, in particolare la provincia di Bari produceva panni in canapa e in lino e la provincia di Lecce panni in cotone. Nonostante questo, come più volte abbiamo avuto modo di sottolineare attraverso le parole di Galanti, le manifatture del Regno avevano << lo svantaggio dell’apparecchio e delle tinte >> e in alcuni territori << non essendoci fiumi non si possono avere fabbriche di lana >> , mentre in altri non mancavano certo le fabbriche, ma i prodotti << per l’alto prezzo della manifattura non trovano compratori >> e, in ogni caso, molte stoffe << sono lontanissime dalla perfezione, sono di cattivo gusto per difetto d’istromenti e di scuole di disegno >> e << mancano telai per molti lavori >>

 

4. Se paragonassimo gli abiti popolari a quelli dell’aristocrazia, vedremmo che i primi erano frutto delle tradizioni, della cultura locale, delle possibilità economiche dei singoli abitanti delle varie comunità, mentre i secondi dipendevano esclusivamente dalla capacità dei nobili ad omologarsi alla moda europea e, anche volendo, questi ultimi non potevano distinguersi ma dovevano conformarsi a forme sartoriali standardizzate. In particolare, presso la Corte dei Borbone non si poteva evitare di seguire le mode degli altri reami, poiché non esistevano disegnatori e sarti che si dedicassero ad ideare abiti per i reali e per gli aristocratici e quindi a creare uno stile peculiare del Regno di Napoli.

 

Le stoffe che servivano a realizzare gli abiti dei nobili napoletani, dalla semplice livrea all’abbigliamento diplomatico, passando per gli abiti di gala, provenivano dall’Oriente e dalla Francia e i sarti che li confezionavano erano parigini, di conseguenza nel Settecento non esistette un’alta moda napoletana, ma semplicemente si seguì quella francese.

 

Le stoffe che accomunavano i nobili abiti maschili, in particolare giacche, marsine e gilet, erano i velluti, semplici o cesellati in pelo di seta e spesso riccamente decorati da ricami in oro raffiguranti motivi floreali, i rasi ed infine le tele di lino e di cotone, per fodere e controfodere interne.

 

Come possiamo notare, quegli stessi panni di lino e cotone indispensabili per confezionare i semplici abiti popolari sono invece qui relegati nelle fodere, poiché altri e ben più preziosi erano i tessuti offerti al tatto di chi ammirava gli abiti di corte.

 

Tra i tessuti che costituivano gli abiti femminili vi erano i taffettà, la seta, i tessuti marezzati,

 

5. i broccati, in oro e in sete policrome, le preziose passamanerie, come i merletti in seta e i nastri, il pékin di seta,

 

6. i decori su seta, ottenuti con una particolare tecnica, chiné à la branche, che consisteva nel tingere direttamente l’ordito, il gros di seta bianco che, talvolta, sostituiva la tela di lino per foderare le marsine, il tulle di seta, il dorso delle redingote eseguito “a teletti”

 

7. A proposito della redingote apriamo una parentesi: questo modello di abito maschile si affermò soprattutto dopo la Rivoluzione Francese perché risultò essere molto più pratico della classica marsina settecentesca e più adatto al modello di vita all’aria aperta teorizzato da Rousseau; essa veniva realizzata in tessuti leggeri, prevalentemente sete, e la moda dell’epoca prevedeva che, per essere veramente elegante, un uomo dovesse indossarla con i calzoni in pelle e gli stivali in cuoio.

 

E ancora, altri tessuti con cui si confezionavano gli abiti di corte potevano essere i panni di lana, la seta liseré, l’ermisino

 

8. di seta, l’argento filato, le paillettes, che venivano impiegate sulle stoffe per disegnare fiordalisi, palmette e motivi antropomorfici, i ricami in canutiglia

 

9. d’argento, le ciniglie

 

10. policrome, i filati in ciniglia, i filati metallici e la garza

 

11. di seta.

 

Gli ampi abiti di gala delle dame si prestavano a questi ricami e disegni realizzati con la varietà di fili di stoffa appena descritta.

 

Possiamo immaginare nobildonne della corte borbonica indossare ingombranti modelli, stile “robe à la française”, in pékin di seta a fondo chiaro, magari avorio, perché, di proposito, la tinta tenue mettesse in risalto righe, tralci di fiorellini policromi e altri ricami decorativi.

 

Queste vesti, con ampi panneggi di pieghe, erano di solito aperte anteriormente, sul “pièce d’estomac” e sulla sottana, ed erano completate da applicazioni in merletto e passamaneria che si disponevano lungo i bordi e i pannelli anteriori delle gonne.

 

Oppure immaginiamo dame che indossavano modelli apparentemente più semplici, privi di ricami a rilievo, ma ricchi nell’intensità dei colori delle stoffe, magari sgargianti sete rosse, arricchiti sulla scollatura da grandi nastri di raso chiusi a fiocco e da merletti.

 

Un discorso a parte meritano le stoffe usate per confezionare le uniformi militari, poiché in quel caso non si trattava di scegliere le più belle o le più sfarzose, sebbene la nettezza e la bellezza di quei capi contribuissero ad accrescere il prestigio dell’esercito del Regno di appartenenza, ma di optare per tessuti resistenti e che permettessero ai soldati di svolgere le loro missioni, il tutto ovviamente nei limiti dell’epoca, perché non esistevano fibre tessili sintetiche aventi le caratteristiche che conosciamo oggi.Anche in questo caso il Regno di Napoli non disponeva di atelier che confezionassero le uniformi, bisognerà aspettare gli ultimi due decenni del Settecento perché si stabilissero sul territorio delle manifatture reali permanenti.

 

Delle stoffe usate per confezionare divise abbiamo notizia attraverso le varie “ordinanze” che hanno scandito gli anni di Regno che vanno dal 1743 al 1791 e i cui testi scritti sono conservati negli Archivi Militari.Vi sono inoltre riviste specializzate, come “Divisas y Antiguidades”, su cui sono pubblicati estratti di cedole, coeve al periodo che stiamo trattando, che forniscono dettagli sulle uniformi dei soldati dei Borbone.

 

In questi documenti si fa riferimento ai tessuti delle uniformi della fanteria e, più in generale, delle truppe a piedi, si parla di tela per le camicie delle truppe, di lino per le camicie degli ufficiali, di feltro per il tricorno che portavano sul capo, di lana gialla o bianca per i galloni che bordavano il tricorno delle truppe e di fili d’oro o d’argento per i galloni che bordavano il tricorno degli ufficiali.

 

E ancora, si parla di cuoio per la giberna, di pelle per gli stivali, di metallo per i bottoni, di raso per le coccarde sui copricapi. In particolare, in un’ordinanza del 14 settembre 1771 si prescrive tassativamente la tela battista per i manichetti delle camicie estive degli ufficiali inferiori, i berrettoni di pelo nero per i granatieri, le sete per i giamberghini, il velluto nero per foderare le giberne; un’altra ordinanza del 1783 prescrive poi i calzoni di pelle gialla per gli appartenenti alla cavalleria, mentre il “piano” del 1788 prevede che la fanteria indossi panciotti di tela o traliccio bianco per difendersi dalla calura estiva.

 

L’unico capo d’abbigliamento militare napoletano “originale”, cioè non derivato da elementi stranieri, soprattutto spagnoli, fu la “paglietta”, un cappello tondo, piccolo, con la falda sinistra rialzata, guarnito di coccarda, pompon della compagnia di appartenenza e nastro rosso attorno al giro della cupola, il cui uso si diffonderà dopo il 1799.

 

Deduciamo da queste descrizioni che, a differenza degli abiti popolari e di quelli indossati dagli aristocratici, il vestiario militare era (e in fondo, anche ai nostri giorni, è) caratterizzato da fibre diverse, un po’ più particolari, rispetto a quelle comunemente usate: feltro, metalli, dal bronzo al ferro e dall’oro all’argento, piume, pelo d’orso, pelle di daino, pelle di leopardo, cuoio, pellami vari, ciniglie più rozze rispetto a quelle che abbiamo descritto parlando degli abiti di corte, velluti, meno pregiati ma più resistenti, tele di lino grezzo, lana e cotone.

 

Concludo questo lavoro affermando che è utile sottolineare come non solo gli abiti, ma persino la varietà delle singole fibre tessili, i modelli e i tipi di lavorazione dei tessuti facevano la differenza tra ceti e si caricavano di una serie di significati, tradizioni e peculiarità che variavano da classe a classe, da categoria a categoria e da territorio a territorio, diventando specchio della società del XVIII secolo e svelandone pregi e difetti.

 

 

 

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CAPITOLO II ( Abbigliamento delle classi del Regno )

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Vuoso G., Ischia negli scritti del filosofo inglese George Berkely; Atti relativi al periodo 1970-84, Napoli, Centro Studi sull’Isola d’Ischia, 1984

 

 

 

2.2 Uniformi militari

 

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2.3 Abiti di corte

 

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Capitolo III ( Profilo socio-antropologico della società del tempo attraverso l’analisi dei costumi )

 

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CAPITOLO IV ( Le stoffe ed i modelli )

 

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