Non si può in un viaggio in Russia, non imbattersi in una riflessione sul sacro.  L’oro delle cupole si accende di bagliori accecanti sullo scenario azzurro del cielo e sembra accompagnarti nel tuo viaggio.

Ho visto a Murmansk, sperduta base polare dei sommergibili atomici, costruire una nuova chiesa ortodossa con le antiche tecniche dei maestri d’ascia. Uomini e donne in una fredda mattina, tra un aroma di vodka e di resina, risate sguaiate di ragazze dalle mammelle enormi. Il secco suono delle asce tra lo schizzare di una miriade di schegge. Non c’erano chiodi, ma solo abilissimi incastri. Ciò che mi affascina è l’affiorare del sacro, laddove l’uomo ha cercato per politica di cancellarlo. E’ una forza primordiale come quella dei teneri germogli che a primavera forano l’asfalto per venire alla luce. Non basta laicizzare un rito matrimoniale per sotterrare l’elemento divino che l’accompagna. Ho assistito ad un matrimonio politico presso la Casa dei Matrimoni a Leningrado e posso dire di averlo trovato ugualmente ricco di attese, tensioni, di un nostro matrimonio religioso. E’ pur vero che ci siano abili sostituzioni di ambienti e di personaggi: il mondo ecclesiale con quello statale comunista. Gli sposi sono tutti giovanissimi, non più dei diciotto anni. Impacciati come la loro età comporta. Sono introdotti in una coreografia da operetta. Un breve sogno di fasto ed eleganza occidentali. I candidi vestiti di tulle delle spose sono copiati da qualche rivista americana. Un’orchestrina di balalaiche è l’unico tocco nostrano. Serissimi ed attenti suonatori in costume emettono note che riconosco. Dopo Mendelssohn, un’improvvisa aria di Cole Porter. Vedo il volto dei ragazzi: sognano. La coppia è al centro di un salone fastoso, illuminato da lampadari degli zar. I parenti, rilegati in un angolo, seduti su sedie comuni, hanno un fiore in mano e ostentano una mite eleganza contadina. Da una vasta scrivania in stile Luigi XVI, avanza una stupenda creatura dal vestito di raso amaranto, lungo sino ai piedi. Ha capelli d’oro, raccolti sulla nuca. Lo sguardo dolce e penetrante accompagna la tonalità carezzevole della voce. Ha pause studiate, breve frasi musicali che si perdono nella grande sala. Il sì degli sposi, riconoscibile in ogni lingua, chiude la cerimonia. Medaglie del partito vengono appuntate sui vestiti. Il sorriso è sparito, i volti sono seri. Nell’angolo, genitori e parenti armeggiano con i fazzoletti incontro alle lacrime di sempre. Tutto qui.

    Mosca, una fredda giornata d’inverno. La Piazza Rossa , immensa, bianca di neve. Le cupole variopinte di San Basilio, il color mattone della cinta di mura del Kremlino. Il parallelepipedo di granito rosso della Tomba di Lenin, si posa pesante sul terreno. Ha l’aspetto di un meteorite inatteso. Una coda scura, inconsueta, per noi, si snoda per quasi un chilometro. Sono arrivato all’alba. La fila è per uno o due al massimo, guardata a vista da militari dal colbacco di astrakan bianco di neve. Sono severissimi. Ti riprendono per un non nulla: il tono della tua voce, un’incertezza nel procedere. Guai se ridi! Ti piomba addosso il più prossimo di loro e comincia ad urlare, agitando il manganello. Per un attimo mi sembra di essere in una di quelle file, tristi, degli ebrei nell’atto di trasferirsi. Il mondo del quotidiano ti ha abbandonato e resti li, solo, mentre la neve ti si scioglie sulle labbra con sapori infantili. Una nenia, lenta e triste nelle sue note, nasce in un punto che non vedi. Cammini così, a piccoli passi, con gente di tutta la Russia , per lo più contadini, venuti da lontano. La porta del Mausoleo, dapprima lontana, si avvicina col passare delle ore. Sei partito con la curiosità che ti ha lasciato per strada. Ora all’approssimarsi di quel antro di marmo, il tuo cuore si è messo a scalpitare. Possibile? E’ solo Lenin. Ti vuoi rassicurare. I cappelli vengono tolti dal capo e la neve vi si deposita. Nessuno parla più. Solo lo strisciare delle scarpe sulla neve ghiacciata. Ecco la porta di granito rosso. Vi è schierata la Guardia d’onore. Un’eleganza delle divise inconsueta. La falce e martello luccica su sfondo rosso. Entro. Vedo solo luce. Perdo di vista il mio vicino. Si passa in un’altra camera dove la luce è abbagliante.C’è uno strano aroma che non riconosco. Ora scorgo i volti di coloro che mi precedono. I loro occhi sono fissi sulla bara di cristallo. Attimi di pausa del passo. La mano che vorrebbe toccare. Vanno avanti. Hanno visto. Ora tocca a me. La testa ha un fragore di nenie infantili, sento lo scuotersi dei campanellini argentei della mia parrocchia, quand’ero ragazzo. E’ il suono dell’Elevazione. Passo avanti, sapendo di non avere il coraggio di guardarlo.


Lucio Paolo Raineri -Napoli Notte – mercoledì 4 ottobre 1989.