Ricordo quella sera brumosa, fredda. Il castello, bianco dal recente restauro, sembrava finto. Come finti, quasi pupazzi, due enormi scozzesi in kilt che suonavano cornamuse nell’androne. La luce della sala d’entrata penetrava nel buio del giardino. Le voci del gruppo, i flash delle macchine fotografiche. Il conte di Mansfield vestito di scuro, ci attendeva sulla soglia. Dietro di lui, una schiera di cameriere dalla divisa nera con la cresta merlettata sui capelli, frenava risatine nei nostri confronti. Il sorriso bonario e accogliente, sotto i baffi, ampi e ritorti, del conte ci introduceva in un’ampia sala dal tetto a botte. Un enorme camino rischiarava la sala con l’aiuto di torce fumose alle pareti. Altre comparse scozzesi, in costume nazionale, suonavano cornamuse ai lati del fuoco. Una passamaneria rossa sospesa su pilastrini mobili di legno, divideva la parte del castello, affittata al tour operator dal conte, dalla sua abitazione abituale. Infatti, oltre questa effimera linea, in fondo ad un corridoio, una signora con bambini a lato, ci osservava; forse la moglie. I vestiti erano quelli di tutti i giorni. Ci introdussero nella sala da pranzo di stile quattrocentesco. Quadri di severi antenati alle pareti e armi rugginose si alternavano su muri di mattoni rossi. Fu un pranzo con un menù scozzese, dove ciò che ti ricorda qualcosa che conosci ha un sapore tremendamente diverso, a volte opposto alle tue aspettative, ingoiabile. Le cameriere restavano, durante il pasto, con le spalle contro le mura della sala, immobili, quasi cariatidi. Ad un segnale convenuto della caposala, si precipitavano sulla tavola e cambiavano stoviglie e vivande. Quasi una danza. Rientravano subito al loro posto, riacquistando l’immobilità di prima. Ricordo che quella sera non ero di umore abituale; forse il clima, forse quello scenario falso, fatto per noi, turisti. Ad un cero punto mi alzai e lasciai i convitati alle loro libagioni. Me ne tornai nella grande sala ad osservare il grande falò che ardeva nel camino. I suonatori di cornamuse avevano deposto gli strumenti e seduti su panche di legno conversavano, non occupandosi di me. Fu lì che accadde uno strano fenomeno, un pugno di minuti che mi hanno lasciato sempre sgomento a ricordarli. Al di là del cordone di velluto, si vedeva una porta socchiusa che dava nello studio del conte. L’enorme scrivania e la poltrona dai fregi dorati la indicavano. Avvertii uno strano e inconsueto impulso. Sollevare il cordone di velluto e passare oltre, fu un attimo. Non l’avrei mai fatto, per carattere, sono un timido. Passai oltre la porta socchiusa. Ricordo una foto sulla scrivania. Doveva essere la moglie giovane del conte, immersa nella vasca da bagno con tutti e tre i pargoli, aggrappati a lei, nell’acqua schiumosa. Sentii un senso di disagio per quella intimità non dovuta. Ma il mio sguardo finì sulla parete, al lato sinistro, che sovrastava un enorme divano damascato. Una quantità di teste impagliate di tigri erano affisse come trofei di vecchie cacce in India. Erano teste impagliate, dagli occhi di vetro e dalla dentatura vera. Tutte uguali ad uno sguardo sommario. Qui iniziò il secondo ed ultimo tempo di quella strana sera. Attraversai tutto lo studio, quasi chiamato da una targa apposta sotto di una delle teste di tigre. Avevo difficoltà alla messa a fuoco di quelle poche lettere, che sembravano attrarmi. Mi avvicinai e le lettere si fecero chiare. La data e il luogo di uccisione di quella tigre. Sawua  -8 Dicembre 1938. La mia nascita

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