Gigino l’inglese ha questo soprannome per essere stato fatto prigioniero dagli inglesi durante le nostre conquiste africane. “ Tre anni, dottò, Se stava na magnificenza, thè e biscotti alle 4 del pomeriggio !” In realtà come ogni napoletano, che intuisce subito la strada per campare, Gigino aveva fatto da interprete tra il gruppo degli italiani, deportati con lui in India, e i guardiani del campo. Poche parole dell’idioma straniero, apprese vendendo a Pompei vasetti “originali”, ma falsi, gli erano serviti per aiutare i corretti, ma incompresi militari inglesi. Tre anni con una contiguità giornaliera con il fumo di Londra, un po’ attenuato, data la distanza, ma sempre degno di ammirazione e di contagio. Per cui al ritorno, aveva preferito lasciare crescere i suoi baffi accurati e ritorti all’insù e mantenuto il vestiario estivo militare del campo, calzettoni bianchi al ginocchio e pantaloni color cachi a mezza gamba. Qualche parola inglese nel quotidiano del vicolo e l’appellativo di “l’inglese” gli era rimasto negli anni. Io l’incontro ogni mattina, alle sette, quando parcheggio l’auto nel quartiere, per recarmi in ambulatorio. Siamo ambedue maniacalmente precisi, per cui ci incontriamo quasi nello stesso punto, il marciapiede di fronte al pescivendolo, sotto il ponte della Sanità. Porta nella mano sinistra un canestro di vimini, che mi ricorda quello di Cappuccetto Rosso. E’ leggermente claudicante, ma il passo è spedito. Quando arrivo alla sua altezza, si ferma, fa schioccare i tacchi, si pone sugli attenti e mi fa un saluto militare stupendo. Resta in silenzio, con quegli occhi vispi che mi scavano, un tenue sorriso ed attende che io passi. Io, sempre colto da un leggero imbarazzo con una mano destra che mi si alza a mo’ di saluto papale. Il mio sorriso è più aperto, accondiscendente. Ieri mi è successo un fatto strano. Per timore che piovesse avevo cambiato le mie scarpe sportive con scarpe più pesanti, invernali. Ne sentivo, camminando, il suono sordo della suola sul selciato. Incontrando Gigino, nello stesso punto, lui ha fatto partire il suo saluto. La nota musicale dei suoi tacchi ha richiesto per un attimo che io continuassi quella sequenza di note. Mi sono fermato, ho dato un colpo fantastico ai miei tacchi. Dritto come non mai, ho risposto al suo saluto da perfetto militare. Per un attimo ci siamo trovati così, in silenzio, uno di fronte all’altro, seri, gli occhi fissi e il braccio immobile nel saluto, a mezz’aria. Ho sentito sulla destra, lo stridore di una frenata. Ho appena scorto il volto della signora che ci guardava a finestrino abbassato: “ Gesù, Gesù, chiste so asciute pazze”.