Inusitatamente si apre al mio sguardo un luccichio là, alla fine della stradina che scivola in uno slargo del lungomare di via Caracciolo in questo primo e pacato settembre.

Sfavillante vestito da festa! indossato da questo mare partenopeo, almeno nei miei ricordi, nelle giornate d’inverno, quando il cielo è terso e un traverso radente increspa la superficie del mare facendolo brillare sotto i picchianti raggi di un tiepido sole ristoratore, che inganna gli abitanti di questa città, ma che il soffiare intrigante sotto le vesti ricorda agli increduli napoletani, così inclini ai facili entusiasmi, che la bella stagione è ancora lontana.

Sono subito attratto da questo spettacolo seducente! Gli vado incontro come al richiamo di fanciulla ammaliante. Di corsa attraverso il lungomare e sono già seduto sul più basso quadrato di granito della barriera frangiflutti e quasi a toccare questa  figlia del mare dal vestito luccicante di brillanti , mi bagno i piedi nudi e lascio che l’umida salsedine bagni le mie labbra.

Questa festa del mare si confonde allora con quella vissuta nella recente vacanza nell’Egeo.
Anche lì, nell’isola di Patmos, il mio sguardo era incantato da questa luccichio che riempiva la baia antistante la tavernetta impergolata e che si srotolava in un manto  di brillanti a cristalli sempre più piccoli all’orizzonte fino a lambire l’isolotto di Lipsi.

Non sono solo. C’è una festosa adunanza di popolo, la più varia: donne, bambini, uomini, vecchi. Con disinvoltura mostrano i loro corpi. I più piccoli nudi, come ai tempi delle foto d’epoca, i grandi in adamitici costumi da banchetto di mercato che esaltano le sgraziate e abbondanti forme del corpo.
Sono divertito, ma anche affascinato da questa naturalezza di vita

E’ un variegato mercatino umano che appare ai miei occhi: l’alternasi dell’età e più di tutto una voglia di contatto con la marina di persone in dissonante sintonia con l’ambiente.
Ci sono infatti spose dall’elegante apparato nuziale fuori tempo, fuori dal loro contesto funzionale che si sdraiano come su tappeti di orientale e pregiata fattura sul nero porfido levigato dal mare e spolverato da un sottile strato di salsedine, dietro i comandi di “pennaioli” dell’immagine in sensuali posture dal sapore agrodolce.
Un terzetto di piccoli adolescenti, nelle loro acerbe fatture di scugnizzi,ritti, in mezzo agli scogli, dalla folta capigliatura bruna,  impiastrata dall’acqua di mare, gareggiano al familiare gioco del mitto più lungo, mentre una orgogliosa coetanea nel bianco vestito di prima comunione passa, poco più sopra delle loro teste, in processione col piccolo corteo di familiari con la sinuosità di una Rossella ‘O Hara.

Se vuoi immergerti nella natura umana ed autentica di Napoli, non devi andare nelle piazze monumentali, messe su nell’intento di dar spinta ad un turismo che stenta a decollare o nei vicoli dei quartieri o dei cavoni, sempre più storpiati da un’invadente e rumorosa modernità, devi, invece, soffermarti qui, sulla scogliera del lungomare della Caracciolo nelle giornate di sole.
E’ qui, che il cuore antico di questa città si apre nel contatto fetale della  acquaticità marina alla sua autenticità..
Questa città, meretrice, come la Boccuccia Di Rosa della canzone che “ dona a tutti la stessa rosa “, ma che mantiene intatta la sua natura di cavalla selvaggia, di gitana libera da obblighi e convenzioni, di Luciana bruna, dai piede scalzi, nella sua sfrondata e ammaliante tarantella tra le reti stese ad asciugare sulla marina.
Si è data a tutti i predatori di passaggio: Bizantini,Svevi, Angioini, Aragonesi, fino ai ciondolanti Yankee, e ancora ai laurini, centristi della vecchia come della nuova ora o agli strilloni di un cambiamento che mai verrà.
Sono venuti questi saraceni di ogni ora e latitudine a razziare, ma sono usciti dall’abbraccio di questa donna, sensuale, dalle forme solide e dai seni caldi e protettivi, più umani e meno guerrieri.
Si è concessa forse sì senza ritegno, ma non si è mai annullata nel dono dell’abbandono, preservando intatta la sua calda umanità di donna, capace di accogliere nel suo abbraccio di tenerezza e di gioia il forestiero, il viandante,il soldato invasore, riproponendo  il linguaggio antico ed  universale dell’incontro e dell’amore, modello perenne di tutte le relazioni umane.

La figlia del mare dal vestito luccicante va dileguandosi ormai dietro la collina di Posillipo, sfiorando con il suo strascico gli scogli tufacei della punta di Marechiaro.

La gente intorno a me si grogiola al sole; si abbandona agli ultimi raggi d’estate, dopo aver consumato il “maccaturo” da Lunedì di Pasqua. E sarà la tenerezza del tramonto o il vino delle fiaschette che inizia a levarsi dal folto del gruppo di piazza Mercato un duetto di Mario Merola, mentre più appartata una fanciulla accovacciata sullo scoglio con il volto contro vento e sfidando con lo sguardo l’orizzonte si stringe le ginocchia tra le braccia e  canticchia tra i denti una canzone di Gigi D’Alessio,  accordandola con il tamburellare del piede e ritmandola con il ciondolare del capo. Si può anche vedere in questo clima di allegria di fine giornata, la mano di zio Pasquale tendere una pacca alla moglie Carmela facendo sussultare le vezzose fossette di cellulite delle natiche.

Eppure non ritiro lo sguardo da questa festa di carne, di intimità dai bassi dei vicoli e cortili. Anzi ravvedo in essa una dignità di umanità vera ed autentica.

Allora mi guardo fuori e dentro e mi accorgo che sono l’unico della scogliera ad indossare i vestiti. Ne provo imbarazzo, quasi vergogna. Mi accorgo che il vero ignudo sono io.