“Quale piacere ricordare, tra i crepacci dei nostri umori, alle tre di un pomeriggio, in cui la pigrizia e la disperazione incombono, che c’è sempre un aereo pronto a decollare per un altrove” (De Botton). L’Altrove questo magico lenimento che ci viene incontro, quale sirena ammaliatrice, a consolarci dell’oggi infruttuoso e monotono. “L’altrove” ha fattezze e contorni diversi per ognuno di noi. Può essere un luogo d’infanzia, un riposo sognato o trasognato in un posto appreso per caso, la pagina di un libro, un manifesto in una stazione ferroviaria, un opuscolo di un’agenzia di viaggi. Ma è opportuno che per noi rappresenti l’altrove, quasi una simmetria lontana dal punto dove ci troviamo a vivere. L’altrove non ha connotazioni negative, ma racchiude tutte le proiezioni positive possibili che noi possiamo dargli. L’altrove non ricorda la parte negativa della nostra fisicità, con i mille segnali di disturbo quotidiani che ci invia il nostro corpo, dalla bollicina in bocca al bruciore di stomaco o altro. L’altrove ci aspetta, validi, forti, di ottimo umore, pronti a superare le angustie e i pericoli di un viaggio. E, infatti, l’altrove nasce improvviso un giorno di tetra depressione, forse tra la pioggia di una strada tormentata, pozzanghere vere e di vita. Uno di quei giorni in cui qualcosa ci avverte che siamo al limite, un limite precario, oltre al quale c’è il buio. L’altrove sorge in un angolo oscuro della nostra mente e si evidenzia lentamente, fantasma consolatore. “Non importa dove!” diceva Baudelaire. La sua era una fuga da, senza meta. L’importante era uscire, scappare purtroppo da se stessi. Questa pesante chiocciola, casa e sentimento, che non si stacca da noi per nessuna ragione. “Devo andare”- è la frase di un personaggio di romanzo d’appendice o la frase di un Marco Polo o di un Colombo. Questa catapulta che si materializza dentro di noi e ci proietta chissà dove. La motivazione dichiarata copre ben altro. l.p.r.